Una sociologia dello sguardo e della gerarchia che si determina tra chi guarda (può guardare) e chi viene guardato (privo di sguardo): si può sintetizzare in questo concetto il libro di Abdelmalek Sayad, scritto in collaborazione con Eliane Dupuy, anche essa ricercatrice del Cnrs, Una Nanterre algerina, terra di bidonville. La traduzione di Agostino Petrillo, professore associato del Politecnico di Milano, curatore del volume insieme a Sonia Paone, ricercatrice dell’Università di Pisa, per le edizioni Ets (pp. 136, euro 14), rende finalmente disponibile in italiano un’utilissima ricerca pubblicata originariamente nel 1995 dal sociologo algerino, fondamentale studioso delle migrazioni e, quindi, delle condizioni e politiche abitative. D’altronde, come Sayad precisò in un’intervista con Federico Neiburg pubblicata nel 1996 dalla rivista di antropologia sociale «Mana», la specificità del lavoro immigrato, in cui è contenuta buona parte della storia dell’immigrazione, è che egli «non ha un nido da nessuna parte, non ha più i genitori. Insieme con un lavoro, è necessario dargli un tetto, un’abitazione, un alloggio, perché ha lasciato tutto nel suo paese».

LA MIGRAZIONE è costitutivamente collegata al lavoro e alla casa e lo è ancora di più quando la migrazione è familiare: «quando si è soli non si abita come si abita con una moglie e dei figli. Non è la stessa cosa», dice una delle tante persone intervistate, in prevalenza algerini, per la ricerca condotta da Sayad a Nanterre, un comune alle porte di Parigi. Siamo di fronte a bisogni essenziali cui provvedere con ogni mezzo, compresa l’autocostruzione o l’acquisto di un ricovero fatto di lamiere, cartoni, a volte mattoni. Riattualizzando, ogni volta che qualcuno ne ha bisogno, «un procedimento vecchio come il mondo: le baracche e altri rifugi di fortuna».
Le cosiddette città di bidoni, le bidonville, nascono, così, attorno a Parigi, e quelle di Nanterre sono tra le più conosciute, sorte alla fine degli anni ‘50, mentre si radicalizzava la guerra d’Algeria e la repressione violentissima francese, con torture, deportazioni e l’internamento di parti della popolazione colonizzata ormai considerata omogeneamente nemica.

NEL LIBRO si ricostruisce la nascita delle bidonville dal punto di vista di chi le ha abitate. Si tratta di un punto di vista che, anche a distanza di anni, non riesce a dimenticare la vergogna di essere stato sotto la sguardo criminalizzante altrui, in maniera concreta, quotidiana, costante: andando alla fontana per riempire le taniche di acqua potabile o al lavoro in autobus, con le scarpe sporche di fango. Sempre oggetto dello sguardo degli altri, in silenzio, con la testa bassa. Stigmatizzati per il luogo in cui vivono, per la zona di provenienza. Giudicati per i loro bisogni quotidiani, che sono quelli di tutti, ma, per loro, per gli abitanti delle bidonville, diventano mancanze, disordine, incapacità. I loro sono i bisogni di chi non è come gli altri. È inferiore. Ad esempio, vive l’acqua come un’ossessione: che sia troppa quando piove, che non ci sia se è necessaria per bere o lavarsi. Ma la vive anche come un commercio, «dato che costituisce una preoccupazione comune, una ossessione costante di tutta la bidonville, è dunque naturale che l’acqua e il suo rifornimento danno luogo a uno sfruttamento e a un commercio».

I SERVIZI di approvvigionamento dell’acqua sono parte dell’economia interna delle bidonville, il cui consolidamento le conferma come spazio di relegazione, ma anche di rifugio, nel quale, ad esempio, uscire per fermarsi in un caffè, ma anche presso un alimentari, un macellaio o un parrucchiere. Sayad lo definisce come «universo della povertà, la bidonville è il luogo di una economia dei poveri, fatta di piccole cose, ma di tante piccole cose, Un’economia che mescola solidarietà e interesse e si rifiuta di confessare a se stessa le sue vere ragioni».
La bidonville ha la sua vita economica e sociale e le sue regole. Questo non la rende, ovviamente, uno spazio facile da vivere, ma ricorda che è uno spazio umano, abitato da persone, sebbene dimenticate o oltraggiate, come dimenticata è la raccolta dei rifiuti nelle bidonville da parte delle autorità municipali.

SOLO LA SCOMPARSA di questo tipo di luogo risolverà i suoi problemi. E questa scomparsa è avvenuta, evidenzia Sayad in conclusione, portando con sé la cancellazione della sua stessa memoria pubblica, sebbene non da parte di chi lo ha abitato. A Nanterre, e nel resto della Francia, le bidonville sono scomparse nel periodo della costruzione dei grandi insediamenti di case pubbliche a basso costo, ma, finita la fase storica della casa costruita con l’intervento dello Stato (in Italia, già dai primi anni ‘80 del secolo scorso), c’è stato il «trionfo postumo della bidonville», come scrive Agostino Petrillo nella postfazione. Rimarcando, con queste parole, un profondo elemento di attualità del libro, relativo, appunto, all’attualità dell’abitare informale, specialmente, ma non esclusivamente, di parte della popolazione migrante, non solo nei continenti dei grandi slum, ma anche in Europa, come scrive Sonia Paone nell’introduzione: un continente nel quale si vanno moltiplicando spazi liminali che intrappolano e confinano «tutti coloro che sono indesiderati e sgraditi».