Ha vinto On Body and Soul, il ritorno (faticoso) dopo tanti anni di Ildiko Enyedi, la regista ungherese che aveva conquistato il mondo con l’esordio stupefacente di Il mio XX secolo. Spiazzando le previsioni Paul Verhoeven, presidente della giuria, ha scelto per l’Orso d’oro questa storia di desideri trattenuti, narrati nel tempo e nello spazio del sogno, nella metafora animale che restituiscono obliquamente il sentimento del contemporaneo, corpi e anime in stato di panico. Il premio alla regia va a Aki Kaurismaki, forse il film più amato di questa Berlinale con un palmares che tocca – più o meno – le punte della competizione.

La realtà oggi e l’invenzione del suo racconto nell’arte, negli immaginari è la domanda che ha attraversato gli schermi del festival tedesco nelle sue diverse sezioni. Merzak Allouache, algerino, è stato negli anni coi suoi film un osservatore attento di quanto accadeva nel suo Paese, capace i di illuminarne le tensioni profonde, la Storia e il presente sempre spostando l’orizzonte «locale» a una dimensione globale. Investigating Paradise, Investigando sul Paradiso, il suo nuovo film prova a indagare – come dice appunto il titolo – l’idea del paradiso così come viene promessa ai giovani jihadisti da un imam salafita: 72 vergini e la libertà di ogni piacere qui in terra proibito.

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Cosa significa tutto questo, su quali elementi fa leva, perché attrae i giovani algerini – e non solo – come funziona l’indottrinamento religioso degli imam che chiamano alla jihad, in che condizioni si sviluppa, perché anche il suo paese vive come gli altri una progressiva wahabizzazione? C’entrano la confusione, la rabbia, il sentimento diffuso di non avere futuro. L’impotenza e il desiderio di sentirsi importanti. La corruzione politica e la manipolazione astuta messa in opera e supportata dai poteri del Golfo che grazie alla loro ricchezza impongono una visione «pericolosa» del Corano, anche in un paese il cui passato guarda più alla tradizione sufi completamente all’opposto – e non a caso nel film incontriamo una meravigliosa musicista Sufi la cui presenza incarna una resistenza radicale, è donna, fa musica tutto ciò che si vuole cancellare.

Investigating Paradise – in Panorama Dokumenta – mischia diversi piani: l’elemento narrativo è dato dal personaggio della protagonista, una giovane giornalista, Nedjima (Salima Abada ) che scopre in rete i sermoni di un predicatore salafita molto popolare specie tra i giovani e spesso in televisione. Cosa è per te il paradiso? Con questa domanda inizia la sua inchiesta, incontrando giovanissimi rapper, i ragazzi che frequentano i cybercaffè messi sotto speciale controllo, un maestro di arti marziali che nella sua palestra non accetta ragazze perché il posto è sconveniente, non troppo pulito, fuori c’è il mercato e una ragazza potrebbe essere infastidita… Ma poi si lascia un po’ andare e spiega che a quell’età i maschi vivono uno scatenamento ormonale e quindi è meglio non creare situazioni che potrebbero rivelarsi fuori controllo. Le ragazze invece sono più calme, sanno darsi delle regole.

E scrittrici, attivisti  politici, intellettuali, tutti provano a dare una risposta, c’è una donna, un po’ più grande che ride: «72 vergini ai maschi e a noi, nulla?» confessando poi però il suo timore rispetto alla tirannia e all’impoverimento del pensiero culturale che ciò ha determinato. Altri spiegano l’attrazione in termini di classe: sono i più poveri a cadere nell’incantesimo di promesse e dogmi. Vulnerabilità, tabù da rispettare ma anche da trasgredire.

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La frustrazione sessuale e l’ansia di una rivincita: la colpa se un uomo fa degli errori è sempre della donna, se si droga, ruba, beve… «C’è una specie di schizofrenia tra i giovani algerini oggi – ha detto Allouache nella discussione dopo la proiezione del suo film – Vogliono divertirsi, uscire in gruppo ma la religione lo impedisce.Al tempo stesso le nuove generazioni vivono senza speranze né lavoro in un Paese pieno di risorse che a loro sono precluse. Lo stesso accade in altre parti del mondo arabo, e così i giovani si fanno catturare dalla violenza e dall’estremismo». Come la sua protagonista, anche Allouache ha scoperto l’indottrinamento dell’imam per caso in internet, che suonano grotteschi – come quando dice che le vergini non hanno bisogno della crema Nivea per essere belle – e che invece sono altamente pericolosi specie di fronte un progressivo spostamento verso il wahabismo anche della società algerina.

Bianco e nero, costruito come un viaggio che attraversa – e sempre con amore – l’Algeria nei suoi diversi ambienti, ascoltandone una molteplicità di voci, il film di Allouache restituisce una specie di instantanea in profondità del presente. Senza cercare risposte né giudicare il regista come sempre si concentra maggiormente sulle fratture, sui vuoti, su quei bisogni che nutrono l’affermazione di una ideologia. E in una realtà dissemina con precisione il sentimento del nostro presente.