Può accadere che, nell’obbligata stanzialità della vita attuale, un libro sulla moda del villeggiare risulti acutamente contemporaneo: il lavoro di Alessandro Martini e Maurizio Francesconi, La moda della vacanza Luoghi e storie 1860-1939, Einaudi, pp. XXII – 354, € 34,00) tocca la sua nota più originale proprio in questa apparente contraddizione. La precisa definizione cronologica lo colloca nell’ambito della ricerca storica; l’indefinita apertura spaziale sollecita l’insorgere di quella nostalgia surrogata, o «senza memoria», nella quale l’antropologo Arjun Appadurai, nei lontani anni Novanta, riconobbe l’essenza dello spirito consumistico: alimentato, scrisse, da una «paradossale interrelazione tra patina e moda». È infatti paradossale che proprio la Moda, che di per sé è cambiamento, cerchi una convalida nella patina di un passato immaginario, costruito ad hoc.

L’irruzione del presente
Eppure il punto nodale del libro, ciò che lo rende contemporaneo, è proprio la rivisitazione di questo paradosso. Da una parte la tranquilla rilettura della vacanza come «moda» che costruisce la propria legittimazione sulla riproposta immaginativa di siti, modi, storie dell’abitare. Dall’altra, irrefrenabile, l’intrusione del presente. La contingenza del confinamento pandemico blocca l’immedesimazione del lettore, gli «sporca» il consumo della vacanza come opera della fantasia. Di questo stile del desiderio forse definitivamente tramontato, balza ora in primo piano l’appartenenza a una «fase», o stagione, del tempo, fragile e peritura: proprio come la moda. Sapevamo che le variazioni nell’arte del vestire, con la loro proverbiale mutevolezza, creano tempo. Applicata alla vacanza, ora impariamo a conoscere la «moda» quale potenza anche spazialmente performativa. Il libro di Martini e Francesconi ci fa questo regalo.

Sensibile al dettaglio curioso, penetrante nella scelta delle illustrazioni, bibliograficamente documentato, è insieme giornalisticamente informativo e sottilmente didattico. Il genere nel quale si iscrive è quello della letteratura di viaggio, rilavorata nella direzione degli Studi sul turismo.

Si avverte ad ogni pagina l’occhio allenato agli spostamenti liberi e compulsivi di quello che fino a ieri era uno stile di vita acquisito, mentre osserva – felicemente incurante del touristically correct – il progressivo allargarsi ai cinque continenti di quel fenomeno tutto occidentale, anzi in radice «europeo», che per le élites otto-novecentesche – della nascita, del censo, della cultura – fu la vacanza: in ogni sua latitudine e longitudine. Di fatto una strategia incruenta di colonizzazione.

Dalle terme settecentesche di Bath, costruite dai Romani, il lettore è trasportato alle mete classiche e salutiste dell’Europa continentale, ai luoghi deputati di un altrove variamente reinterpretato secondo i canoni di un esotismo estetizzante. Costa Azzurra, Magna Grecia, Africa Mediterranea, Vicino Oriente, India, Cina, Giappone. Naturalmente senza dimenticare il Nuovo Mondo. La ricostruzione si arresta al 1939: è evidente come lo scoppio della guerra rappresenti una cesura negli stili di vita di un’intera cultura. Tutt’e due le grandi guerre furono retrospettivamente percepite come fenditure dolorose nel fluire del tempo. Si diffusero termini come ante- e dopo- guerra. Le mode vestimentarie si concessero più o meno brevi revival degli stili anteguerra. È però altrettanto evidente che subito dopo, o forse anche già durante la seconda guerra mondiale, si aprì una ininterrotta escalation di mobilità. In fondo i territori di cui il libro tratta sono gli stessi che le conquiste del low cost avrebbero di lì a poco fatto apparire a portata di volo, e che oggi sono ridiventati lontani. Diversamente lontani.

Non è un caso che uno dei capitoli più incisivi sia quello dedicato all’atto stesso del viaggiare. «Treni, yacht e transatlantici: quando la vacanza è il viaggio». Nel periodo compreso tra l’affermarsi delle grandi potenze nazionali e lo scoppio della seconda guerra mondiale, la moda della vacanza assoggettò vaste aree del pianeta a una sorta di rinominazione turistica.

Il gusto per la vacanza socialmente significativa prese forma con l’invenzione del grand-hôtel – al mare, ai monti, ai laghi – quale luogo deputato di un abitare che simboleggia tanto il radicamento nel territorio quanto la libertà del poterlo abbandonare senza troppe complicazioni. I grandi alberghi che sorgono lungo i percorsi di viaggio non sono soltanto gli emblemi di un lusso esclusivo: con i loro parchi, con le strade create ex novo per renderli raggiungibili, per esempio nelle località di montagna, sono forza che plasma il paesaggio, che imprime sul territorio un segno destinato a restare visibile ben oltre la decadenza e l’abbandono. Oppure si pensi alle nuove linee ferroviarie, prima fra tutte quella mitica dell’Orient Express, albergo di lusso su rotaie al cui interno si sfiorano principi, assassini, scrittori, donne con un passato.

È la dialettica di viaggio e stanzialità a rendere la vacanza «disambientante» e perciò rigenerante, per il corpo e soprattutto per lo spirito. Quale che sia la varietà degli stili architettonici e paesaggistici prescelti – e il libro ne insegue un vasto campionario: dal rinascimentale al rococò, al barocco, al «nativo» – il grand hôtel trasmette, reinterpretandolo entro una gamma codificata di prezzi, il riferimento a un abitare reso patrizio dalla sua lunga durata, e al tempo stesso temporaneo e quasi casuale. Vi hanno accesso l’aristocrazia e i rappresentanti del grande capitale industriale e manifatturiero, che per primi sperimentano la vacanza come gioco di ruolo, abitudine a calarsi in un costume di vita momentaneamente assunto. Si scende in albergo e si diventa altri. Uno spaesamento che è in se stesso salutare.

Escursioni letterarie
Non si contano i romanzi e i racconti che fanno coincidere con una villeggiatura, con un viaggio d’istruzione, di piacere o di salute, la crisi identitaria dei loro personaggi. Nel 1893 Conan Doyle è a Davos: darà le cascate di Reichenbach come sfondo allo «scontro finale tra Sherlock Holmes e il cattivissimo Moriarty». All’inizio del suo poema Alcyone (1902), ispirato da una villeggiatura estiva, Gabriele D’Annunzio usa il refrain «ei sarà giovine ancora!», di derivazione keatsiana.

Il mito della giovinezza recuperata, vero e proprio topos non solo igienistico ma culturale, sostiene i sontuosi stabilimenti termali, i vari Spa o Kurorte che, disseminati in Francia, Svizzera, Germania – Vichy, Evian, Vevey, Baden-Baden, Karlsbad, Marienbad e non ultimi i nostri Salsomaggiore, Montecatini, Chianciano – stabiliscono un controllo commerciale sulle acque e sul paesaggio, e indirettamente, attraverso una calcolata alternanza di cura del corpo e svago, sul ritmo stesso della giornata dei loro ospiti. In tempi più vicini ne scaturirà un immaginario delle Terme, ormai planetariamente condiviso attraverso il cinema: da L’Année dernière à Marienbad di Resnais, a di Fellini, a Youth (La giovinezza) di Sorrentino.