Tosca di Giacomo Puccini, rappresentata per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma nel 1900, è un viaggio di sola andata ai confini del rappresentabile teatrale: scene di gelosia e schermaglie amorose tra l’eroina e l’eroe in chiesa; l’antagonista fa torturare lui, poi tenta di stuprare lei; alla vista di lui ferito, lei decide di salvarlo andando a letto con l’antagonista, ma poi, inorridita dalla sua vicinanza, lo pugnala e ne allestisce il feretro con candelabri e crocifisso; l’eroe, che dovrebbe essere fucilato per finta, muore per davvero; lei si suicida saltando dalle mura di un castello. La moltiplicazione delle enormità, che i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giocosa riprendono fedelmente dall’omonimo dramma di Victorien Sardou del 1887, rende gli allestimenti di quest’opera sempre a rischio di scivolare nell’eccesso incontrollato e nel grottesco involontario.

 

Quello voluto dal sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo Francesco Giambrone, ripresa di una sua precedente produzione fiorentina con la regia di Mario Pontiggia, le scene e i costumi di Francesco Zito, le luci di Bruno Ciulli, in scena fino al 26 novembre, ha il pregio, nella sua fedeltà alla lettera del dramma, di ridurre al minimo i rischi e di collocarsi nel solco di una tradizione ormai consolidata: prospetti architettonico-scultorei che riproducono i luoghi dell’arte reali in cui la vicenda è ambientata (con qualche ammiccamento: la torsione in basso della cupola di Sant’Andrea, il ritratto dell’Attavanti in stile Hayez), impostazione attoriale tipicamente lirica, con pochi gesti statuari.

 

Due le eccellenze dell’allestimento: la direzione scintillante di Daniel Oren e l’interpretazione del soprano cinese Hui He, che si muovono all’unisono con un’intesa sorprendente per stacco dei tempi e fraseggio. Il maestro, come sempre esuberante, energico, scrupoloso nel sostenere i cantanti, rende ragione della seduttività melodica e della complessità armonica della partitura, riposante su un tematismo di origine wagneriana riletto alla luce della tradizione nazionale: la dirige come fosse una sinfonia, cercando di non perderne alcuna screziatura timbrica o ritmica, mettendone in risalto la continuità, godendone senza inibizioni i volumi e le intensità, sottolineando, con arbitrii felici simili a quelli del compianto Giuseppe Sinopoli, trovate armoniche e tinte.

 

 

La cantante dà a Tosca esattamente la sua voce, piena, omogenea nel colore, spinta e drammatica o tenue e lirica alla bisogna, modulando ogni sillaba e penetrando ogni dinamica, riuscendo in definitiva a scolpire un’interpretazione vocale a tutto tondo del ruolo, emozionando con la sua forza trattenuta il pubblico in «Vissi d’arte, vissi d’amore» al punto tale da fargli chiedere un bis, poi generosamente concesso. Così come un bis è stato chiesto per «E lucevan le stelle» del tenore Stefano Secco, che è riuscito a sostenere decorosamente un ruolo parzialmente al di là delle sue possibilità. Grifagno e intubato lo Scarpia di Alberto Mastromarino.