Largo e accogliente è il respiro del viaggio di Giulio Ferroni (nato a Roma nel 1943), magnetica l’andatura, acuminato lo sguardo e ostinato (secondo l’accezione di Serge Daney, il più grande critico cinematografico francese dopo André Bazin) su ciò che resta e su ciò che invece è, qui e ora, lungo le strade della penisola, da Trento a Capo Passero, nelle strade, nelle piazze, nei paesaggi campestri e rupestri, nei borghi che furono gloria e vanto di una civiltà, nelle pianure che un tempo dovevano apparire più aperte e ariose, non macchiate da insediamenti industriali, da capannoni, da centri commerciali e, insomma, da tutto quello che ha trasformato la campagna in un’infinita periferia e in una bolgia di infima, coatta, miserabile e violenta ossessione consumistica. I secoli hanno lavorato, scavato, modificato: «Così il viaggiatore dantesco può trovarsi più volte a fare i conti con queste incertezze, con toponimi spariti o con indicazioni troppo generali che è difficilissimo far combaciare con siti precisi, con luoghi e pietre da fissare nello sguardo, da toccare e da percorrere, da memorizzare in immagini fotografiche».
E poi, certo, ci sono le chiese, le cattedrali, i monasteri, i monumenti, gli antichi insediamenti, gli affreschi, i dipinti, gli stili architettonici con le varie stratificazioni, i vecchi muri a secco, i cimiteri di pace e di guerra e le lapidi, quelle che indicano la nascita o il passaggio degli uomini illustri e quelle poste a ricordo dell’inferno novecentesco, delle vittime innocenti, dei partigiani, dei martiri della violenza nazi-fascista. La ferocia del passato remoto e quella del secolo scorso fanno da contrappunto alla bellezza che ancora resiste, e non è poca, nel paese tuttavia umiliato e ferito da uno sviluppo selvaggio, volgare e scriteriato.
Quando Ferroni passa da Casarsa della Delizia e visita la tomba di Pasolini, gli tornano in mente quei versi della tarda e drammatica seconda versione delle Poesie a Casarsa che dicono (in traduzione dal friulano): «Tornando senza corpo là dove le campane cantavano parole di dovere sorde come tuoni // Non piango perché quel mondo non torna più, ma piango perché il suo tornare è finito».
Potrebbero, queste parole, significare il sentimento profondo che presiede a L’Italia di Dante (La nave di Teseo + editore e Società Dante Alighieri, pp. 1226, euro 30,00) se non fosse che l’autore, nel suo lungo «viaggio nel paese della Commedia» (ecco il sottotitolo), con acuta acribia e con asciutta compassione, cerca e mostra al lettore ciò che precisamente non smette di tornare, ciò che malgrado tutto persiste, non ancora cancellato, dell’umile Italia.

Indignato, incantato o divertito
Il fascino doloroso e consolante del libro risiede proprio nella registrazione esatta e puntigliosa di una tale irrimediabile frattura – trauma mai rimosso da Ferroni nel suo continuo osservare appunto luoghi, pietre e persone, queste ultime nei loro volti, nella postura, nei comportamenti, nell’abbigliamento (fuori dai Musei Vaticani, e all’interno, si avverte «più forte il dolore di questa contaminazione»: il turismo di massa, corpi che mi muovono senza nulla vedere, anime sciatte). Non a caso l’autore, il viaggiatore solitario armato di penna e di taccuino, a volte incantato e altre indignato o divertito, per contro, utilizza spesso parole come «dignità», «gentilezza» o «civile», laddove se ne presenti l’occasione, e si tratta di termini che denotano non tanto una nostalgia quanto piuttosto un desiderio. Dentro una simile ampia teoria di luoghi, siano essi «pieni di vita o di disgregato silenzio, rinnovati o franati, tra persistenti tracce di ciò che era allora e segni di tutto ciò che è passato su di essi nel tempo», si colgono «la bellezza» e «lo sfacelo» insieme.
La modernità, sa bene Ferroni, si mostra come «frantumata e secolarizzata», e ciò malgrado egli riconosca a tale condizione, allo iato e alla frizione che in essa si produce, lo stigma di un’unicità umanissima e sofferta, così come davanti a un dipinto il suo pensiero va a tutti gli occhi anonimi che nel corso dei secoli su quell’opera si sono posati, occhi appunto di uomini e donne che oggi si sono chiusi per sempre. D’altra parte, si chiede Ferroni sulle rive del lago di Pergusa, «non sarà che questo viaggio, come ogni viaggio, sia ricerca di quanto è andato perduto?».
«Per tanto tempo», racconta l’autore nella nota introduttiva, «ho sognato questo viaggio, per tanto tempo esso è per me rimasto un desiderio». Poi, «lasciate le stanze sfatte e disordinate dell’Università Sapienza, cariche ormai di imposte elucubrazioni burocratiche, compilazioni su schermi e su carte, verbosi e vani consigli, riunioni, commissioni», ecco che il sogno di «tornare a Dante», mediante la densità di un viaggio che toccasse i luoghi visti o solo nominati dal poeta, diventa realtà. Ritrovare Dante anche, sottolinea l’autore, per «sfuggire all’inessenzialità e all’inconsistenza di tanta letteratura di oggi, alla sua subalternità al mercato, ai modelli mediatici». Perché qui, ovviamente, Ferroni non rinuncia a esprimere i propri umori, a essere (quand’è il caso) urticante, come quando, posteggiando la macchina nei pressi della Città del Vaticano, dice di restare «un po’ seccato dal ricordo che su queste strade c’è l’abitazione di un tal palindromo considerato un grande intellettuale», oppure (ad Assisi) quando definisce Toni Negri un «singolare residuo del truce narcisismo degli anni settanta».
All’inverso, non egli nasconde il ricordo benevolo, affettuoso e l’accesa simpatia, il culto dell’amicizia. A Bagnoregio riaffiora, ad esempio, la memoria lontana di un anziano germanista dalla «pensosa severità» con «qualcosa di venerabile nella sua figura, in cui sembrava di scorgere la testimonianza di un altro tempo» ovvero Bonaventura Tecchi. A Urbino rivive l’immagine di Paolo Volponi, «voce di un’Italia operosa e severa, ma anche turbinosamente inquieta». E, ancora, ad Acitrezza, si svela il ricordo del comunista ormai disincantato Carlo Muscetta oppure, davanti allo Spasimo di Palermo, ecco riappare Vincenzo Consolo. E inoltre, diretto verso il punto «dove l’acqua di Tevero s’insala», si fermerà nello spiazzo in cui trovò martirio Pasolini, mentre passando per Corviale pensa al romanzo Un inchino a terra di Franco Cordelli, l’amico di sempre, insieme ad Alfonso Berardinelli, compagno di banco al liceo.
Ma poi, sempre accompagnato dai versi di Dante (del suo Dante-Virgilio), in ogni luogo vengono evocati nomi a esso in qualche modo legati: ad Avezzano il cattolico irrequieto e problematico Mario Pomilio, a Ferrara Giorgio Bassani, a Pachino Vitaliano Brancati, in Calabria Corrado Alvaro, a Spotorno Camillo Sbarbaro, a Pieve di Soligo Andrea Zanzotto, a Genova Giorgio Caproni e i versi de Il passaggio d’Enea

Palermo oscura e splendente
Il libro si apre su Napoli, dove Virgilio e Leopardi si incontrano «per segni, suggestioni, richiami, lapidi, tardi monumenti», e si chiude su Firenze vista dall’Uccellatoio. In mezzo passa l’Italia, dalle pagine smaglianti, abbagliate di luce, sulla bella Trinacria dove è nata la poesia italiana e sulle cui coste meridionali sbarcano i migranti o i loro corpi senza vita e senza nome, e su Palermo – città «tremenda e fascinosa, oscura e splendente, teatro della vita e della morte» –, a quelle intensissime sull’aspro paesaggio umbro in prossimità di Assisi, dalle quali vale la pena riportare un passaggio che offre al lettore una formidabile definizione di ciò che fu il sentimento di un’epoca. Scrive Ferroni: «In questo effetto visivo di Assisi, in questo Oriente che appare da lontano e lentamente si avvicina, si sovrappone qualcosa di guerresco, di duro e di incondito, con una dolcezza rude e pungente: castello guarnito, di dominio e di difesa, e sacello dello spirito; insieme altera potenza e generosa umiltà. Come di fronte a pochissime altre situazioni, questa visione dà l’illusione di afferrare la sostanza del mondo che chiamiamo medievale, quel che di antico c’è nella sua tensione verso l’assoluto: un mondo nello stesso tempo nudo e corazzato, esposto e protetto, depresso e superbo, in un intreccio di corporeità e spiritualità, tra immersione nella vita e onnipotenza della morte, tra radicamento nella terra e disprezzo del mondo».
Ma innanzitutto, nelle pagine di questo libro – che è l’opera tanto attesa di un’intera vita – passano l’immensa cultura, la sapienza e la probità di un umanista che abbiamo la fortuna e il privilegio di avere come nostro contemporaneo.