Nato a Ginevra nel 1965 da padre franco-egiziano e da madre tedesca e morto nel 2017, Philippe Rahmy ebbe a trascorrere tutta la propria non lunga vita, dagli anni dell’infanzia a quelli della maturità, cercando di proteggersi da ogni benché minimo urto esterno. Soffriva infatti di osteogenesi imperfetta, la cosiddetta «malattia delle ossa di vetro». Spesso persino l’attenzione e la cura estreme che metteva nei movimenti del corpo non lo salvavano dalle fratture (pare una cinquantina in totale). Ogni contatto rappresentava un pericolo, una probabile sciagura, una promessa di immobilità: dunque un’esistenza fatta di infinite letture, di acute riflessioni non di rado amare e dolorose, di isolamento, di solitudine, di scrittura e poi, avanzando l’età, com’è naturale e giusto, di rimpianti, di rimorsi e soprattutto di risentimento, esplicati però sotto forma di disperato, irridente, irriverente riso leopardiano o, anzi meglio, di ghigno ferito e umiliato. Restavano pur sempre all’erta e palpitanti il desiderio, la lucida intelligenza e la vitalità, elementi mai ceduti alla sofferenza e all’arbitrio feroce del destino.
Nel 2011 Rahmy, insieme ad altri autori europei, accetta tuttavia di compiere un viaggio a Shanghai su invito dell’Associazione degli scrittori di quella città. Sarà il suo primo e unico vero viaggio – una scommessa coraggiosa, il gesto che afferma una volontà indomita, irriducibile. Oggi quell’esperienza resta chiusa in un libro che sarebbe uno spreco e una perdita non leggere per poi magari ricordarsene nei momenti difficili. Cemento armato (traduzione dal francese di Marella Nappi, nota introduttiva di Jean-Christophe Rufin, EDT, pp. 183, e13,50) non gioca a nascondino con le pretese che sottende. È certamente il resoconto di un viaggio, l’affresco di un universo urbano per certi versi sconvolgente e sconcertante, il ritratto percussivo e nervoso di un mondo che pare avere abolito l’immobilità, la stasi e la contemplazione, la messa in scena dello svariare sbigottito e insieme divertito dello sguardo sulla verticalità architettonica che tocca il cielo senza mai vederlo o, infine, la forte e spesso ripetuta marcatura (quasi visionaria, come una preveggenza o un dejà vu) intorno a un futuro più o meno prossimo in cui le città europee assumano a modello formale, abitativo e potremmo dire spirituale proprio le linee di quella megalopoli vista appunto come una anticipazione dell’«avvenire del mondo».
Ma è altrettanto vero che Cemento armato – con questo tiolo così neutro che soltanto sembra designare un duro, pesante materiale da costruzione contro cui sarebbe meglio non andare a sbattere – allude a una sfida ben altrimenti ardua di quella del turista, a un’impresa quanto mai estrema e faticosa, a una sorta di ascesa al Mont Ventoux di una interiorità fatta di impulsi persino crudeli e indicibili. E allora, per chiudere il cerchio di una vita da sempre votata alla spasmodica e costante attenzione verso di sé e verso le proprie ossa, occorre teatralizzare e provare a scarnificare nella scrittura, su di essa riflettendo e da essa pericolosamente sporgendosi, l’intemerato sentimento misto di passione e di astio nei confronti della vita medesima. Rahmy si affida all’atletismo del pensiero e dello sguardo, non potendosi consentire cimenti fisici. Pensiero e sguardo, a quell’altezza, non conoscono usura (un libro contro l’«usura dello sguardo» è la felice formula che Rufin utilizza nella nota prefatoria).
Sguardo ostinato (per citare Serge Daney) e pensiero acuminato, dunque, a svellere dal passato gli strati profondi per portarli in superficie mediante la visione del presente. «Shanghai e io abbiamo lo stesso gusto per la violenza», scrive Rahmy. E prosegue: «Ci siamo costruiti e continuiamo a crescere per successione d’incidenti. Non ho mai visto tanti corpi martoriati come a Shanghai. Non c’è né guerra né carestia. La gente sembra felice. Eppure ogni strada risuona di schianti e di grida. Ormai sul punto di partire, percepisco un rapporto tra questa città e i miei ricordi. Piango, tutti i mormorii della città passano nei miei singhiozzi».
Ed è per mezzo di un simile sentimento che viene rappresentata la megalopoli cinese e semmai la fraternità con essa e con i suoi abitanti, questi ultimi a formare, nel «rumore di macchina da guerra» masse tumultuanti che «s’intersecano» e «collidono» e paiono al tempo stesso moltiplicarsi e frantumarsi dentro quello spazio tellurico e incandescente, laddove il «gigantismo» dei luoghi sembra deformare, come in una visione anamorfica, i corpi degli uomini e delle donne sempre in movimento, in un flusso impetuoso e inarrestabile.
Proprio a Shanghai – città cobra e mangusta insieme – lo scrittore svizzero compie il suo viaggio a ritroso nel tempo, a un passato dal quale riemergono eventi anche minimi o, al contrario, grandi evenienze, ad esempio la malattia di una persona cara, la perdita di un amico adolescente, i lunghi periodi di stallo sentimentale, le occasioni che non si sono nemmeno date. Oggi, qui, dopo e prima di tutto, confessa, «conto i miei morti. Non invecchiamo a causa del tempo che passa. Invecchiamo a causa dei morti che portiamo, e che continuano a morire in noi». La nostra genealogia si consuma con noi, col nostro sparire dal pianeta. Per tale ragione Rahmy, lettore di Elias Canetti, sa che «sopravvivere agli esseri sani è la vera consolazione degli incurabili» e inoltre, crudelmente, promette di fare l’impossibile pur di «sopravvivere alle persone che amo».
Cemento armato è un libro di spietata e radicale resistenza alla caducità.