Il mondo si rivela a chi lo attraversa a piedi. Questa convinzione che guida il suo viaggio sui passi di Bruce Chatwin, lungo sentieri che spesso sono stati i propri, Werner Herzog l’ha raggiunta sin da ragazzo, quando ha cominciato a esplorarlo dal paesino della Baviera dove era nato. Fino a sfidare un giorno l’inverno in una lunga camminata a piedi da Monaco a Parigi fatta come «voto» per guarire l’amata Lotte Eisner. Era convinto che l’avrebbe salvata e dopo il suo arrivo lei visse ancora nove anni. Un caso? O forse l’arte del camminare ha davvero un potere sciamanico?

QUESTA storia straordinaria di devozione al cinema e al camminare che il regista ha narrato nel suo libro Sentieri nel ghiaccio, ma il legame che lo univa a Eisner era speciale: era stata lei a definire l’esordio di Herzog Segni di vita (1969) un «vero film tedesco» dicendo a Fritz Lang, di cui era stata assistente: «Ho visto il lavoro di un giovane tedesco, cineasta eccezionale».
Ma cosa significa camminare? Non si tratta di esercizio fisico, pure se ci vuole forza e molta determinazione per confrontarsi con le strade impervie accettandone il rischio; sono le fantasie a tracciare il percorso, una dimensione interiore, la scoperta di sé, qualcosa che interroga le proprie certezze rivelando nuove epifanie.
Herzog reinterpreta l’eredità romantica dei viaggiatori tedeschi in una visionarietà con cui spinge ogni volta all’estremo se stesso, i suoi attori, i luoghi che filma, resi quasi dei «personaggi», la tecnologia e, soprattutto, il gesto del cinema. Che un giorno le sue traiettorie incontrassero quelle di Bruce Chatwin era quasi prevedibile, i due diventano amici – «Era l’unica persona con cui potevo avere una conversazione sull’aspetto rituale del camminare» dice di lui Herzog.

COME il regista tedesco lo scrittore inglese era un viaggiatore, un narratore con la passione per l’insolito, capace di mettersi sulle tracce di un mostro preistorico e di un parente lontano (In Patagonia) o di seguire le «Vie dei Canti» degli aborigeni australiani visibili solo ai loro occhi. Due nomadi, dunque, Herzog e Chatwin, amanti del mondo come solo i nomadi sanno esserlo -chissà perché i sedentari vogliono caparbiamente cambiarlo si chiedeva Chatwin nelle pagine dei suoi taccuini. Questa affinità attraversa Nomad: in cammino con Bruce Chatwin , che dalla biografia sulla vita e le opere dello scrittore mescolate ai ricordi della loro amicizia diviene così qualcos’altro. Nei luoghi simbolo della sua esistenza e della sua ricerca, nelle voci dei suoi amici, degli studiosi, di chi ha lavorato insieme a lui, nei ricordi della moglie Elizabeth che abita ancora nella casa dove lui tornava sempre bello, seduttivo, al centro dell’attenzione, Herzog traccia una geografia esistenziale di Chatwin che pian piano diviene la sua, scivola nelle sue immagini, nei frammenti dei suoi film, in quelle sfide assolute oggi forse impossibili.

SI ERANO incontrati sul set di Dove sognano le formiche verdi (1984) e tra loro era nata subito una grande complicità. Chatwin gli aveva regalato una copia del Viceré di Ouidah, Herzog gli aveva promesso che un giorno ne avrebbero fatto un film insieme. Ma il progetto si concretizza solo quando Herzog scopre che David Bowie voleva acquistarne i diritti cinematografici. Fa di tutto per scongiurarlo, mette in moto la macchina della produzione, allestisce un set faraonico in Ghana, chiama Klaus Kinski, migliaia di comparse, tra cui una vera corte reale e centinaia di amazzoni africane allenate dallo stunt director Benito Stefanelli, e dà vita a una di quelle imprese gigantesche che avrà come esito Cobra verde (1987). Chatwin, che aveva scritto la sceneggiatura va a trovarlo durante le riprese, è già malato ma rimane due settimane. Herzog nelle sue parole viene descritto come un uomo che «non pare adatto a sopportare le tensioni della vita quotidiana ma è perfettamente tranquillo in situazioni estreme». Il regista sarà insieme a lui nei giorni prima della morte, mostrandogli le immagini del film, e quando Chatwin gli chiede di andare via, gli lascia prima un ultimo dono,il suo zaino di cuoio che accompagnerà Herzog nelle esplorazioni future.

LA PRIMA persona sull’amico scomparso è divenuta prima persona di sé, riflessione sulla vita, sulla morte, sul tempo del cinema intima, commuovente, quasi disarmata. Come la memoria di un desiderio sempre presente,che permea la grana delle immagini, i sentimenti, il vissuto, l’arte.