Se penso ad alcuni dei libri e dei film (già al tempo delle avanguardie storiche) più belli del Novecento (e di questo nuovo secolo) o forse dovrei dire «affascinanti», «vertiginosi», visto che «bello» potrebbe non significare nulla e andrebbe declinato di volta in volta; mi vengono in mente tentativi di interpretare icasticamente le tesi spazio-temporali diffuse a partire da Nietzsche e Bergson, avallate peraltro dalle teorie scientifiche soprattutto einsteiniane, e sedimentatesi in un sentire onirico, paradossale dei creatori di storie, di mondi. Sistemi che narrano di una quadrimensionalità dell’universo e di lì, in avanti o indietro, verso altre, infinite dimensioni di realtà in cui essere perpetuamente, corrispondendo così all’idea nietzschiana di «necessità», necessità della vita, che scongiura il nulla, la fine. È necessario che si sia, che ci sia la vita, al di là della quale (dopo l’apparente infrazione della morte) non esiste null’altro che essa stessa in un continuo riverbero di sé, in un eterno ritorno che già Zarathustra sembrava pensare in termini di eco.

QUELLA STESSA di cui ad esempio raccontava Tommaso Landolfi in un elzeviro del luglio del ’64 dal titolo Isolia Splendens, nel quale si dà la possibilità di scendere di dimensione, e di provocare conseguenze da lì in un altro stadio d’esistenza: là dove l’Isolia splendens è un fragile animaletto floreale, che viene involontariamente strozzato da uno scolaro, in un’altra dimensione è, allo stesso tempo, una bambina di quasi sei anni, di nome Isolina («ma qualche volta in casa la chiamavamo anche Isolia») morta improvvisamente per soffocamento davanti agli occhi di sua madre. È l’effetto eco di cui parla la misteriosa viaggiatrice interdimensionale di The OA (seconda stagione, appena rilasciata su Netflix) interpretata da Irene Jacob, per cui le varie dimensioni di vita si condizionano tra loro e quello che accade in una data realtà si riverbera in un’altra: in uno scenario e una situazione mutati che però portano inscritto il segno di quell’al-di-là; un altro mondo in cui sussiste una diversa versione di sé. In questa prassi la morte è solo lo scarto che sancisce il passaggio ad altra dimensione e garantisce la vita «necessaria», un ritornare fulmineo a sé nella simultaneità di un mondo inteso come messa in scena, ripetizione e montaggio di scene, sequenze.

DEL RESTO Nietzsche aveva dato a questo eterno ritorno connotazioni artistiche, estetiche: è nella poesia, in un’esistenza considerata in quanto poesia, finzione, racconto, che alla fine del «via via voluto» (dal poeta), direbbe Severino, si compie il ritorno di quella stessa vita voluta, torna la costellazione del sé e della sua volontà (di vita). Una costellazione, non un io coerente e tetragono; frutto della convergenza, della mistione di personalità nello stesso corpo: quella giunta da un’altra dimensione (dopo la morte) e quella indigena, che si confondono, si alternano, si negano, spiegando così, secondo la particolare cosmologia di OA, la psicologia febbrile, la contraddizione che caratterizza la natura umana.

CERTO The OA non ha i crismi della grande opera d’arte edificata su calco filosofico, anzi si presenta come ulteriore, consolidato prodotto di consumo offerto da Netflix, ma è proprio l’adeguamento di una filosofia – quella spuria, sovraccarica dei due autori Brit Marling e Zal Batmanglij – al livello di una generale fruibilità, che rende la serie interessante: un pastiche in cui convergono Nietzsche, la new age, il livido referto generazionale, il cinema di genere. Eppure The OA non può essere considerata di facile consumo, soprattutto in questa seconda stagione, che spesso straripa di materiale, divenendo un gioco al rialzo, forse anche autoironico per quanto può apparire puerile; una sfida ad aggiungere quante più trovate e trame e personaggi possibile, che a prima vista non combaciano e sembrano forzare il racconto verso un serraglio di cose e concetti senza logica, ma poi, tanto più a una seconda visione, tendono a corrispondersi. Alla base, la struttura, i meccanismi narrativi di fondo funzionano ed erigono una cosmogonia pop che tra la citata Terra desolata (magari quel livello terraneo che emerge nella prima stagione: un’America livida, tetra, in cui vige la solitudine, ora elevata ad antifona dell’eterno ritorno inscritta su una porta) e La doppia vita di Veronica (l’eco del doppio, dell’altra vita di Irene Jacob) si articola attraverso sogni, déjà vu, esperienze di pre-morte, che sono spiragli, come dire, eidetici, aperti inconsapevolmente su altre dimensioni.

L’UNICO modo per transitare da una dimensione all’altra mentre si è ancora in vita, per fuggire da una realtà desolata, di oppressione e contenzione, quindi per fuggire dalla prima stagione, è di inscenare una danza tra 5 persone, anche questa appariscente, magari sgraziata, al limite del ridicolo, ma proprio per questo sorprendente. Ancora la danza nell’accezione di Zanardi (Sulla danza è un libro che ritorna, deve ritornare, perché dice cose riguardo al nostro tempo che hanno valore politico), per creare spazi alternativi a quelli presenti, come possibilità umanante e trasumanante del contemporaneo: smorfie imbarazzanti e abbandoni aggraziati dei corpi, tanto più se a eseguirli è la corpulenta, occhialuta insegnante BBA, che aprono un passaggio nel cosiddetto multiverso, proiettando all’improvviso il personaggio nel mezzo di una storia, anzi di una ripresa e, al limite estremo della vertigine, sul set in cui si sta girando The OA, dove il personaggio Hap s’incarna nel suo attore Jason Isaacs rendendolo protagonista, così come fa Nina/the OA con l’attrice e sceneggiatrice Brit Marling da cui ripartirà la terza stagione di quello che è divenuto un congegno a concentricità, ad aporia spinta.

E ALLORA la verità che si può scorgere di là da un rosone di una casa stregata è un set cinematografico da dove passano le infinite possibilità di messa in scena, cioè di esistenza, anzi l’ingiunzione di esistere e di ri-esistere dentro l’unica realtà veritativa possibile, quella della finzione.