Affascinato dai diari di viaggio di Alexander von Humboldt, che a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento compì lunghe spedizioni in America e in Asia, e di Georg Forster, naturalista che negli anni ’70 del XVIII secolo partecipò al primo grande viaggio di James Cook nei mari del Sud, Francesco Mezzalira, naturalista e biologo, dopo quindici anni di ricerca su testi antichi e di viaggi per visitare luoghi, musei e mostre in molte parti del mondo ha dato di recente alle stampe Viaggi e Scienza. Esploratori della Terra e della biodiversità (edizioni WbaProject, euro 24).

Il libro è tutto un susseguirsi di imprese epiche, in condizioni difficili, dove le figure dell’esploratore, del ricercatore e dell’avventuriero s’intrecciano. Tutto a quel tempo era difficile e rischioso: prima dell’invenzione di precisi cronometri da marina determinare la longitudine della propria posizione in mare era soggetto a inevitabili errori, non esistevano mezzi efficaci per conservare cibi sani durante le lunghe traversate e lo scorbuto mieteva vittime.

I portoghesi
«I motivi per affrontare nei vari secoli una spedizione verso terre lontane», racconta Mezzalira, «sono stati i più diversi: Alessandro Magno fu uno spregiudicato conquistatore, Marco Polo era un abile commerciante, Antonio Pigafetta era un nobile vicentino mosso dalla curiosità e dal desiderio di fama, Charles Darwin era un giovane naturalista affascinato dagli ambienti tropicali. Le loro imprese hanno tutte contribuito comunque alla conoscenza del mondo.
Nel periodo delle grandi esplorazioni geografiche», continua, «tra i primi a prendere l’iniziativa sono stati nel Quattrocento i portoghesi, che con Bartolomeo Diaz e Vasco de Gama hanno scoperto la via per le isole delle spezie, doppiando il Capo di Buona Speranza.

Gli spagnoli
Nel Cinquecento gli spagnoli hanno conquistato buona parte delle terre americane, distruggendo le civiltà indigene e iniziando l’esplorazione del Nuovo Mondo. Nel Seicento sono stati gli olandesi a organizzare spedizioni nell’oceano Indiano, verso la Malesia, traendo grandi profitti dal commercio con l’Oriente. Il Settecento e l’Ottocento vedono invece gli inglesi e i francesi protagonisti dell’esplorazione geografica».

I filosofi naturali
Da prima vi era il desiderio della ricerca di animali cacciabili o di piante che potevano fornire cibo o medicinali o ancora la scoperta di rarità o stranezze, poi l’interesse si spostò sulle conoscenze botaniche, zoologiche, geologiche e antropologiche. «Il passaggio da un approccio puramente utilitaristico, oppure superficiale, nei confronti del mondo naturale, a uno studio sistematico, scientifico degli aspetti zoologici, botanici e geologici delle terre lontane si collegò con il cambiamento culturale», afferma Mezzalira, «che si era verificato nel corso della rivoluzione scientifica del Seicento e poi con l’Illuminismo. Ma è solo nel Settecento che nelle spedizioni geografiche, per esempio quelle di James Cook, vengono reclutati degli scienziati – filosofi naturali, si diceva all’epoca – con l’incarico di compiere osservazioni e raccogliere esemplari di piante e animali. Lo scienziato viaggiatore più straordinario è stato sicuramente Alexander von Humboldt, che aveva una chiara percezione della complessità del mondo perché poneva in collegamento tutti gli aspetti della natura: rocce, clima, fauna, acque, vegetazione, popolazioni umane. Oggi avremmo bisogno più che mai di questa visione «humboldtiana» delle cose».

Giardini zoologici
A fianco allo studio iniziò anche il trasporto in Europa di piante e animali vivi. «Le piante venivano importate per scopi alimentari o come ornamento dei giardini e parchi, gli animali destinati ai giardini zoologici, inizialmente come curiosità e poi per il loro interesse scientifico», ci spiega Mezzalira.
E non solo. «Due grandi naturalisti dell’Ottocento, Henry Walter Bates e Alfred Russel Wallace, riuscirono a farsi finanziare viaggi in Amazzonia e in Malesia, vendendo gli esemplari botanici e zoologici ai collezionisti europei. Sicuramente il prelievo di esemplari di specie rare può avere contribuito alla diminuzione delle popolazioni naturali, ma il vero problema era costituito dalla distruzione dei loro habitat, denunciato in quel secolo dai naturalisti-viaggiatori».

Cigni neri
Le terre lontane riservavano sorprese infinite per gli europei. «Pensate agli animali australiani», afferma Mezzalira, «come le tante specie di Marsupiali, oppure l’ornitorinco, un mammifero che depone uova, anche se poi allatta i cuccioli… L’Australia non svelò però subito i suoi tesori, sembrava una terra poco ospitale, in buona parte desertica, ma per i naturalisti costituì una fonte di nuove scoperte entusiasmanti: chi avrebbe mai detto che esistevano cigni neri e uccelli che sghignazzavano sonoramente? Il grande naturalista inglese John Gould alla metà dell’Ottocento raggiunse questo continente proprio allo scopo di disegnare e dipingere gli animali realizzando volumi splendidamente illustrati sugli uccelli e i mammiferi australiani», ricorda Mezzalira.

In canoa
Vi era poi chi come Mary Henrietta Kingsley che raccoglieva esemplari zoologici di interesse scientifico: «Si era specializzata in pesci e piccoli animali e aveva affrontato, verso la fine dell’Ottocento, avventurose spedizioni nel continente africano, che era ancora in buona parte sconosciuto. A bordo di una canoa», prosegue Mezzalira, «percorse i fiumi del Gabon e del Camerun raccogliendo diverse specie di pesci che poi conservava in appositi recipienti sotto alcool. La sua collezione ora è conservata al British Museum di Londra».

C’è anche chi immortalò le popolazioni che subirono lo sterminio da parte dei colonizzatori europei. «John White, tra il 1585 e il 1590, andò più volte nell’isola di Roanoke (tra il Nord Carolina e la Virginia, negli attuali Stati Uniti, n.d.r.) dove realizzò disegni degli uccelli, pesci, insetti, piante e delle popolazioni locali. Di questi disegni alcuni sono conservati ancor oggi al British Museum a memoria di qualcosa che non c’è più», ci ricorda Mezzalira.