La nuda cronaca parla da sé. In mattinata la riunione del consiglio dei ministri consente di mettere la fiducia sulla legge Delrio, quella che viene contrabbandata come abolizione delle Province mentre in realtà abolisce solo la democrazia nelle province, cancellando la facoltà per gli elettori di eleggere i loro rappresentanti in quelle che sopravvivono e nelle altre che cambiano nome diventando città metropolitane.

Matteo Renzi ha così fatto subito il contrario esatto di quel che aveva promesso, evitare quel ricorso alla fiducia della quale abusavano i governi precedenti. Sin qui nulla di strano: è il modus operandi dell’uomo. Ma stavolta la fiducia non vanta neppure l’alibi dell’ostruzionismo delle opposizioni: serve solo a garantirsi il controllo su una maggioranza incertissima, tanto che la legge era scampata alla mannaia della pregiudiziale di costituzionalità, il giorno prima, per appena quattro voti. Un soffio.

E’ la ministra Boschi, visibilmente emozionata, ad annunciare a metà mattinata che la legge che abolisce per finta le Province verrà riassunta in un maxiemendamento che riproporrà il testo approvato dalla Camera, però «tenendo conto» dei voti e delle di indicazioni delle commissioni Affari costituzionali e Bilancio del Senato. «Oddio ministra, così è un po’ vago. Non si potrebbe dare un’occhiata al testo, che peraltro dovrebbe di necessità essere presentato prima della richiesta di fiducia?», chiedono con accenti simili Forza Italia, Movimento 5 Stelle e Lega. «Impossibile, deve ancora essere scritto». Si potrebbe almeno vedere la relazione tecnica sulla quale la commissione Bilancio dovrà esprimere il suo nuovo parere? Non se ne parla, deve ancora essere preparata. Anzi, speriamo di farcela entro le 15, sennò bisognerà far slittare tutto a ora da destinarsi.

Nel pomeriggio il maxiemendamento fantasma con annessa relazione tecnica arrivano, e alle 15 in punto parte un affrettato dibattito. Per Sel, Loredana De Petris segnala che non si tratta di una riforma ma solo di una norma transitoria in attesa della riforma, della quale peraltro non si sa ancora nulla. Fortuna che in serata i gruppi congiunti del Pd sono convocati dal velocista fiorentino proprio per analizzare il testo della riforma del Senato e di quella del Titolo V. Peccato che il testo in questione non esista, così non è chiaro di cosa dovrebbero discutere i deputati e senatori del Pd. In compenso è pacifico che, qualora dovessero essere in disaccordo sul testo (inesistente), la parola passerà alla direzione del partito che provvederà a blindare la non-ancora-riforma.

Nelle dichiarazioni di voto le opposizioni bersagliano la legge-truffa. Il governo non fa finta di niente, anche perché non c’è. Lasciato di sentinella il povero sottosegretario Gianclaudio Bressa, tutti gli altri si sono volatilizzati. Inclusi la ministra e il papà della legge, il sottosegretario Graziano Delrio.
Col voto di fiducia, il passaggio della legge è assicurato. Nonostante la fiducia due senatori di maggioranza, entrambi Popolari, non rispettano la disciplina. Rossi vota contro, Di Maggio si astiene dal voto: il governo incassa 160 voti a favore, 133 i contrari.

La legge è sgangherata, la situazione surreale, il clima nei corridoi di palazzo Madama sfilacciato e cupo. Sino a ieri si poteva prevedere che qui il governo avrebbe avuto vita difficile. Da ieri il Vietnam è conclamato. Portare l’Italicum al voto prima delle europee significherebbe per Matteo Renzi giocarsi la carriera politica alla roulette russa. Dunque anticiperà certamente la riforma del Senato e del Titolo V, che però ha poche chances di passare, con i forzisti che dire scettici è poco e parecchi senatori anche della maggioranza tutt’altro che convinti.

Ma per ora non è questo che interessa Renzi. La fiducia “decisionista” di ieri e sopratutto il tweet con cui aveva esaltato la legge martedì notte («tremila politici smetteranno di ricevere l’indennità dagli italiani») rivelano la natura puramente elettorale e propagandistica della sua strategia. L’ex sindaco punta tutto sull’affermazione alle elezioni europee del 25 maggio, e ha individuato il rivale diretto non nel decotto Silvio Berlusconi ma in Beppe Grillo.
Se riuscirà a ottenere il successo sperato deciderà poi, a seconda della situazione che le medesime europee determineranno, se provare ad andare avanti con questa sbilenca maggioranza, se tentare un allargamento a Fi, mossa impopolare presso l’elettorato di sinistra ma che blinderebbe davvero una maggioranza altrimenti agonizzante, o se chiedere subito le elezioni, anche col Consultellum. Va da sé, addossandone la responsabilità alle colpevoli “resistenze” dei politicanti.