Suonare a memoria porta a tradire, fatalmente, inevitabilmente, i segni scritti che attraversano il pentagramma: le note, la loro intensità, la loro agogica, la loro dinamica. Cosa conserva, infatti, la memoria del musicista di ciò che lo sparito o la partitura racchiudono? A ben guardare solo gli assi cartesiani dell’altezza dei suoni (un sol, nella memoria, rimane stabilmente un sol) e della loro durata (una croma diventa difficilmente una semiminima).

Ma che cosa rimane degli altri parametri della scrittura musicale? Della dinamica, per esempio: nell’hic et nunc della esecuzione par coeur – dicono non a caso i francesi – un piano scritto in partitura (se e quando è scritto…) può facilmente trasformarsi in un mezzo forte viceversa. E l’agogica? È il regno dell’incertezza: quale interprete è in grado di ricordare esattamente a memoria il rapporto relativo tra un Andante e un Moderato, tra un Presto e un Prestissimo? Per non parlare del più vaso universo delle innumerevoli varianti che la notazione «moderna» ha adottato nel tempo: gli accenti, lo staccato, il legato, le pause, il rubato, il diminuendo, il crescendo, il rallentando, l’accelerando, il tremolo, il trillo, il portamento, e così via.

La memoria del musicista, per quanto possa essere prodigiosa, non le può materialmente trattenere: perché è uno strumento imperfetto che possiede più vuoti che pieni, più lacune che certezze. E quindi l’interprete che suona, o canta, by heart (sempre il cuore di mezzo…) non può far altro che inventare, reinventare, ricomporre istantaneamente ciò che ha fatalmente dimenticato. Nella prassi della musica occidentale, questo privilegio, quello del dell’interprete-autore, è stato riservato alle figure dominanti della scena musicale: il solista, il direttore e ovviamente, nella cerimonia solenne dell’opera teatrale, i cantanti.

Agli attori secondari del rito musicale questo diritto di reinvenzione è stato sempre negato. Il violoncello di fila, il primo oboe, ma anche il primo violino di un quartetto o il pianista di un trio suonano invariabilmente, anche oggi, con l’occhio fisso sulla parte o sullo spartito, cercando conferma, conforto e autorevolezza nel segno scritto.

Una divisione del lavoro che riflette precisamente la struttura gerarchica della società borghese/aristocratica del Settecento, che ha inventato il «discorso pubblico» dell’opera e del concerto e ha ispirato l’architettura dei teatri e delle sale da concerto: universi chiusi, in cui lo sguardo converge prospetticamente verso il totem centrale, il leggio del direttore. Statica, rigida, chiusa nel culto di una tradizione secolare, questa configurazione è forse destinata a non perpetuarsi per l’eternità.

Negli ultimi mesi, infatti, si sono moltiplicate in tutte Europa alcune esperienze di segno opposto. È sempre più frequente il caso di orchestre professionali che scelgono di lasciare in camerino leggii, parti e partiture, e che scelgono di eseguire a memoria i caposaldi della letteratura sinfonica occidentale. La Sea Baltic Philarmonic, ad esempio, ha registrato insieme a Kristjan Järvi una versione elettrizzante dell’Uccello di fuoco di Stravinskij, l’Orchestra Aurora diretta da Nicholas Collon ha eseguito dal vivo, più volte, la Quinta e la Sesta di Beethoven e gli esempi si stanno moltiplicando. La visione e l’ascolto sono uno autentico choc: niente sedie, niente leggii, tutti i musicisti in piedi (violoncelli esclusi) e uno straordinario gioco di sguardi e di movimenti, di gesti che attraversano come un colpo di vento l’intero palcoscenico. Il violoncello aspetta il cenno del capo dell’oboe, il primo violino spalanca gli occhi verso la viola, i contrabassi si scambiano cenni di intesa. E soprattutto tutti sorridono, ritrovando la felicità di fare musica insieme. Liberi dalla schiavitù della partitura, finalmente promossi, tutti, uno per uno, al ruolo di «autori», inventori di una musica nuova. Ogni giorno sempre nuova.