La Cina si è data un obiettivo: diventare la prima potenza economica e militare del mondo entro il 2049 (centenario della fondazione della Repubblica Popolare). È da qui che bisogna partire per capire il progetto «Nuova Via della Seta».

Il progetto che tanto interesse sta suscitando anche in Europa. Niente di strano, per carità. La globalizzazione ha mutato il suo segno, la sua natura, per così dire, «anarchica». Non solo libertà di movimento dei capitali, delle imprese (meno delle persone), ma competizione tra macroaree economiche globali all’interno delle quali giocano un ruolo fondamentale le grandi potenze politiche, militari e commerciali del pianeta.

LO DIMOSTRA la guerra dei dazi tra gli Stati Uniti e la Cina (iniziata dagli Usa e che non ha tenuto fuori l’Europa), ma anche la «guerra delle monete», finora poco compresa ed analizzata. La stessa spinta cinese all’internazionalizzazione dello yuan e la decisione di Mosca di emanciparsi dalla dipendenza dal dollaro negli scambi commerciali col resto del mondo (scegliendo l’euro) sono segni di una guerra sotterranea, mediaticamente meno clamorosa di quella dei dazi, destinata a cambiare radicalmente gli assetti dell’economia e del commercio mondiale.

SIAMO SOLO all’inizio. Ma tutto questo, per quanto ci riguarda, avviene nel momento più basso della credibilità del progetto di integrazione europea. A vent’anni dall’introduzione dell’euro, l’Europa è più fragile, più divisa, soggetta ad insidiose spinte centrifughe. Sebbene le voci no-euro siano diventate più flebili nell’ultimo periodo, il pericolo di una «balcanizzazione» dell’Unione è più presente oggi che non qualche anno fa, quando, al culmine della crisi economica, la gran parte dei Paesi membri era attraversata da forti tensioni sociali, finanziarie e commerciali.

Tra blocco di Visegrad da un lato e fughe in avanti di Francia e Germania dall’altro, insomma, il progetto europeo si presenta sempre più come una scatola vuota. Solo un mercato unico al quale corrisponde un’unica moneta e rigidi vincoli di bilancio per gli Stati membri. Manca una visione strategica, di lungo periodo, la convinzione che proprio gli attuali scenari geopolitici ed economici mondiali richiederebbero un salto di qualità sul piano politico, un processo di legittimazione democratica delle istituzioni e delle regole comuni.

AL DI LÀ delle opportunità (e dei rischi) insiti nell’adesione alla «Belt and Road Initiative» cinese, è in questa cornice che trova una spiegazione politica la decisione di ben 13 Paesi europei, ai quali adesso si aggiungerebbe l’Italia, di sottoscrivere dei memorandum con il governo di Pechino. In un’Europa sfilacciata, ognuno prova a fare da sé. Ma si tratta di un rapporto asimmetrico: i Paesi europei sono allettati dai soldi e dal grande mercato cinese, mentre la leadership cinese ha in testa un progetto egemonico calibrato sui prossimi 30-40 anni. Un disegno politico che va ben oltre l’interscambio di merci e servizi col resto del mondo, che, a ben vedere, può essere realizzato più agevolmente avendo di fronte interlocutori deboli e isolati.

I COSTI. Leggendo la bozza di memorandum che potrebbe essere sottoscritto dal nostro Paese, colpisce, più di ogni altra cosa, quello che si legge al paragrafo relativo alla «collaborazione finanziaria». In esso, le parti si impegnano a realizzare un «coordinamento bilaterale su politiche di riforma fiscale, finanziaria e strutturale», al fine di «creare un ambiente favorevole alla collaborazione economica e finanziaria». Non solo. L’impegno riguarda anche il «partenariato tra le rispettive istituzioni finanziarie per sostenere congiuntamente la cooperazione in materia di investimenti e finanziamenti, a livello bilaterale e multilaterale e verso paesi terzi, nell’ambito dell’iniziativa della Via della Seta».

CHE SIGNIFICA? Se le parole hanno un senso, che il nostro Paese, nell’ambito del progetto, si impegnerebbe a concordare con le autorità cinesi alcune scelte di politica economica e finanziaria, comprese quelle afferenti il fisco ed il mercato del lavoro. E a creare forme di partnership tra le nostre istituzioni finanziarie e quelle di Pechino. Le odiate «riforme strutturali» richieste da Bruxelles per rifondare su basi liberiste le economie del Continente potrebbero diventare merce di scambio nel nuovo rapporto economico e finanziario con la Cina. E dire che l’Europa, nel suo complesso, vale il 26,6% del Pil mondiale, quasi quanto gli Stati Uniti. Rilanciando il suo «modello sociale», politicamente più coesa, avrebbe da giocare un ruolo molto importante in un mondo multipolare.