La mappa all’ingresso della mostra forse vi deluderà, ma certamente vi farà capire come stavano le cose. Prima di entrare, anche per voi, la Via della Seta che dall’Europa portava al Sudest Asiatico e alla Cina era una e una soltanto. La mappa sbriciolerà le vostre certezze e la romantica definizione, Seidenstraße, Via della Seta nell’idioma tedesco, coniata nel 1877 dal barone Ferdinand von Richthofen. Erano invece quattro le vie, tre di terra e una marittima. Migliaia di chilometri e di miglia. Già che ci siamo, mettiamo fine a un altro mito. Nessuno o quasi, sia nell’antichità che ai tempi delle grandi spedizioni, percorse queste vie da un capo all’altro. Nessuno o quasi partì, ad esempio da Genova o Venezia, arrivando in un solo tragitto a Chang’an, l’attuale Xi’an, capitale dell’impero per dieci dinastie. Ci si muoveva su percorsi per così dire brevi, usufruendo di una rete stradale che con il trascorrere dei secoli si dotò di un vero e proprio sistema di strutture di accoglienza e approvvigionamento. Le relazioni e gli scambi commerciali avvenivano principalmente lungo le regioni del bacino del fiume Tarim (nello Xinjiang) e della Transoxiana, corrispondente oggi a Uzbekistan e Kazakistan; sugli snodi di Samarkanda, Bukhara e del Pamir; sull’area che dall’Iran arrivava alla Penisola Arabica e al Mar Mediterraneo. Le vie, la Via, erano Babele di lingue, razze, fedi, nazionalità, dove si incrociavano mercanti, religiosi, delinquenti, diplomatici, uomini di scienza; dove si contrattavano merci, si ottenevano informazioni, si imparava a conoscere culture e tradizioni altrui. Verso Occidente od Oriente si attraversavano deserti, pianure, catene montuose, senza cognizione precisa di connessioni e collegamenti.

Le vie, la Via, ebbero due periodi di particolare splendore. Con il secondo Impero cinese, alla fine del VI secolo, e la pax sinica, la capitale Chang’an divenne il fulcro di una fortissima espansione territoriale ed economica che aprì nuovi orizzonti a carovane e navi; divenne il luogo di partenza, la meta da raggiungere. La presenza straniera in Cina aumentò a dismisura, tanto che Chang’an, due secoli dopo, arrivò a contare un milione di abitanti e circa centomila residenti da oltreconfine. Il secondo periodo aureo coincise con il regno di Kublai Khan, che mise fine alla lunga instabilità iniziata dopo la morte di Gengis Khan, nel 1227. Il Khan per antonomasia aveva unificato le tribù mongole, lasciando un impero di ventisei milioni di chilometri quadrati. Sotto Kublai arriveranno a trentatré. La Via fu riaperta e gli scambi commerciali non solo ripresero, ma prosperarono. Il calo dei prezzi delle merci asiatiche favorì l’Europa, spianando il cammino verso la Cina a personaggi quali Giovanni da Pian del Carpine, autore della Historia Mongalorum. Marco Polo fu tra i pochissimi a raggiungere il Celeste Impero portando a compimento l’intero viaggio, e il suo Milione alimentò le ipotesi e le rotte delle esplorazioni del XV secolo. Il mondo, grazie alla Via, divenne sempre meno sconosciuto. Lo descrissero con crescente minuzia di particolari, ad esempio il planisfero quattrocentesco di Fra’Mauro e, dal ’500 al ’600, le mappe e i resoconti del gesuita Matteo Ricci. E poi? Scrive l’accademico Louis Godart nell’introduzione al catalogo della mostra «Negli anni ’60 del Novecento la magica espressione ‘Via della Seta’ sarà ripresa da archeologi e storici. Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso l’Unesco, attenta a rilevare i rapporti interculturali, esalta il concetto per evidenziare i legami tra l’Estremo Oriente, in particolare la Cina, l’Asia Centrale e il mondo occidentale. Parallelamente la nozione si allarga perché esistono anche vie marittime della seta, e abbraccia tutti i paesi bagnati dal Mare della Cina, dall’Oceano Indiano e dall’Atlantico».

È questo il passaggio che conduce alla Nuova Via della Seta, progetto per nulla metaforico e romantico, promosso dal governo cinese. Yidai yilu, ‘Una cintura e una via’, il suo nome, tradotto in inglese con l’acronimo OBOR, One Belt, One Road. Obbiettivo la cooperazione tra i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, sessantacinque in tutto, cioè il 70% della popolazione terrestre, il 55% del PIL globale e il 75% delle riserve energetiche sul pianeta. Risultato? Quando il progetto si concretizzerà, Pechino vedrà crescere i suoi commerci di 2500 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. In quest’ottica, il presidente Xi Jinping, oltre ad avviare un imponente piano di riforme in vari settori, ha creato la Asian Infrastructure Investment Bank, alternativa alla Banca Mondiale, con la partecipazione di cinquantasei nazioni tra cui l’Italia. Il Fondo per la Via della Seta finanzierà con quattromila miliardi di dollari la costruzione di aeroporti, autostrade, linee ferroviarie, oleodotti. Il patto tra Asia ed Europa, nelle concrete intenzioni di Xi, si contrapporrà ai trattati commerciali TTIP e TPP, attraverso i quali gli Stati Uniti, mediatori protagonisti, puntano a limitare i rapporti tra Asia ed Europa. Main sponsor della mostra è il Gruppo Shane, primo produttore di tè Tiguanyin in Cina, ventitré chilometri quadrati di piantagioni nel Fujian. Superfluo domandarsi se abbia già indossato la cintura Yidai e stia camminando sulla Nuova Via della Seta.

GUIDA AL VISITATORE

Sarà un lungo viaggio, dove la sola fatica è quella che lascia addosso il peso delle emozioni. Settanta soste, ognuna esempio, dimostrazione, conferma, di come la Via della Seta sia stata nella complessità della sua storia un mondo a parte, disegnato da confini estranei alle geografie politiche, abitato non da uno ma da cento popoli, privo di una lingua ufficiale e di una cultura dominante. Settanta soste e cinquemila anni, cui la mostra aveva il compito di dare giusto ordine. Ma se questo serve al visitatore per comprendere lo scorrere del tempo e degli avvenimenti, occorre duplice sguardo per riuscire ad arrivare oltre l’evidente bellezza. Comincerete, dunque, prestando attenzione alle date e ai nomi; ammirerete la coppa afghana in lapislazzuli, Terzo Millennio prima di Cristo, e il gruppo di suonatori cinesi a cavallo, VIII secolo; vi stupiranno Il Buddha del Ghandara, Secondo/ Terzo secolo, e il piviale duecentesco del pontefice Benedetto XI, tessuto in oro orientale; scoprirete precisi rimandi alle sculture della Grecia Classica nel Bodhisattva pakistano, III secolo; cercherete luoghi a voi familiari sul gigantesco Mappamondo di Fra Mauro (1448 – 1459) e sugli emisferi della Descrizione Illustrata del Mondo (1674), del gesuita Ferdinand Verbiest, Direttore dell’Osservatorio astronomico imperiale di Pechino. Vi comporterete, insomma, da interessati e disciplinati viaggiatori sui tracciati della Via della Seta. Il secondo sguardo passerà invece attraverso il gioco delle emozioni citate poco più su. Un gioco che ignora l’ordine prestabilito, lo scompiglia, mescola i secoli. Così ha fatto chi scrive, e adesso prova a darvene conto in modo del tutto soggettivo.

Gli occhi non riescono a cancellare l’immagine del bassorilievo funerario proveniente da Palmira, Terzo Secolo, pietra di calcare dipinta e dorata. La figura femminile, mano sinistra alla tempia, l’altra poggiata all’altezza della vita, è resa ancor più nobile dall’oro della corona che le cinge la fronte, della collana, del bracciale intorno a un polso. Dietro di lei l’immagine di un bambino che indossa una tunica e regge un grappolo d’uva e un uccello. Chi siano stati lo dice la scritta in aramaico ‘Figlia di ML, ahimé!’, ‘Figlio di QRD, ahimé’. Invocazione dolorosa che coglie pensando a Palmira, città carovaniera e di meravigliose rovine, resa fantasma dall’assurda violenza delle soldataglie dell’Isis. Baghdad o Isphahan, Mesopotamia o Persia, sono le patrie dei ceramisti che nel Nono o Decimo secolo diedero forma alla coppa della pasta vitrea azzurra chiamata Korasan, assai simile al turchese. Gli orefici di Bisanzio vi aggiunsero la montatura in oro e pietre preziose. Piccoli capolavori sono le statuette cinesi del Cammelliere su cammello battriano, cioè proveniente dalla Battria, regione dell’Afghanistan; il Guardiano di Tomba, il Mercante centrasiatico, l’attendente, datati alla Dinastia Tang, 618 – 907. Capolavori nei capolavori, ancora di epoca Tang, la Cavallerizza, che sul retro della sella porta un animale da caccia, forse un felino, e soprattutto lo Straniero dal volto velato. Testimone delle tante etnie che sulla Via della Seta vivevano o transitavano, l’unica certezza a proposito del misterioso personaggio è la sua origine caucasica. La postura sospesa, una gamba ripiegata e l’altra allungata, ha dato spazio alle più diverse ipotesi. Alcuni lo ritengono un sacerdote zoroastriano, i lineamenti nascosti dal velo rituale, nell’atto di manipolare i bastoncini della cerimonia del fuoco; per altri si tratterrebbe di un danzatore o di un suonatore di tamburo; altri ancora lo identificano in un conducente di carro o di cammello, con le redini in pugno; oppure, guardando alla veste candida, come un attore in scena. Seppure giunto in copia a Torino per ragioni conservative, l’originale è custodito all’Archivio di Stato di Venezia, il testamento di Marco Polo, 9 gennaio 1324, ferma il respiro di chi prova a decifrarne le parole. Perché quel semplice elenco di lasciti e disposizioni lo ha dettato alla fine della sua vita l’autore del Milione, quasi ottocento anni fa. Sopra il Sigillum tabellonis apposto dal notaio, Marco lasciò scritto di aver toccato la pergamena per rendere legittime le sue volontà, Signus Manus. Il Buddha stante, India Utthar Pradesh, Quarto/ Sesto secolo, è creatura immobile di arenaria rossa. Monca delle mani, la destra era stata probabilmente fissata nel gesto della rassicurazione, abhayamudra, il palmo rivolto all’esterno, mentre la sinistra sorreggeva un velo. Il volto è illuminato da un sorriso leggero e sottile, gli occhi rivolti verso il basso sembrano guardare qualcuno. Le linee del corpo, piene e armoniose, sono avvolte nel drappeggio della veste. Un’aureola circonda la testa su cui spicca l’usnisa, la protuberanza simbolo della dilatazione della coscienza. Basta, adesso. Perché adesso tocca a voi. Settanta soste e cinquemila anni da attraversare, dimenticando subito e senza averne precisa coscienza che la Via della Seta è a Torino, dentro lo spazio di una mostra.

LOCCHIO E LA BOCCA

La via della Seta a Torino non passa soltanto per il MAO. Fuori dal museo, tra il Quadrilatero Romano e il centro storico, Iran, Iraq, steppe siberiane, India, Cina, ripropongono il viaggio nei menu di alcuni ristoranti. Li abbiamo scelti tra quelli che dimostrano assoluta fedeltà alla cucina di tradizione. Quattro passi dal Mao vi condurranno ai tavoli del Sibiriaki, via Gian Francesco Bellezia, 0114360738, sempre aperto. Cucina siberiana, dunque, servita in quelli che erano i giganteschi locali di un negozio di ferramenta. Il manichino di un pilota di MIG perfettamente abbigliato vi accoglierà all’ingresso. Sotto le volte di mattoni antichi, la brigata del patron Fulvio Griffa è ambasciatrice del Gran Piatto Sibir, che allestirete voi stessi scegliendo tra varie carni e verdure di stagione, cotte al momento sulla piastra e accompagnate da riso, spezie, salse. Il Gran Piatto è disponibile anche in versione vegetariana. In alternativa il menu degustacija, il giro di caviali, gli spiedoni dello shashlik, il pollo kiev… Vini italiani a calice o in bottiglia e la superlativa birra balcanica. Si spendono, senza esagerare, una trentina di euro. La raffinata cucina persiana servita sul sofreh, tovaglia di cotone che viene distesa su un tappeto, e accompagnata da ciotole con salse, verdure, formaggi, elenca Masto Khiar, Mast Labu, Zeresh Polo, Khoresht Bademjan, Joojeh Kabab, Khoresht Fesenjan, Nane Dagh Kababe Dagh. La traduzione di questi nomi in deliziose portate la scoprirete allo Sharazad, via Mercanti 3a, 0115612455, chiuso lunedì, 25/ 30 euro. Analoghe proposte e prezzi al Persian Food, via San Massimo 38f, 3921582667, chiuso domenica. Piatti più semplici ma non meno gustosi al ristorante e take away Riso Zafferano, via San Francesco da Paola 7, 3338657796, chiuso martedì. Specialità dal Kurdistan al Kirkukk Kaffè, via Carlo Alberto 16/18, 0115306 57 chiuso lunedì e sabato a pranzo, domenica. Qui si va di doner kebab, yogurt kebab, iskender kebab, kebab bilu hummus, ricche insalate, antipasti, piatti vegetariani. Ambiente di giusta misura esotica, conto molto onesto. Non suoni esagerato affermare che lo Zheng Yan, via Principi d’Acaja 61, 0114476422, chiuso lunedì, è forse il miglior ristorante cinese di Torino. A fronte di una trentina di euro di spesa, sarete ricambiati con piatti che esplorano la cucina delle varie regioni, sfornando meraviglie nei sapori dei ravioli fatti a mano, dei tagliolini e degli spaghetti di soia, del grano saltato con cipollina e zenzero, dell’anatra arrosto, del branzino ai due colori, delle seppie in salsa piccante. L’indispensabile prenotazione la dice lunga sulla qualità del Chen Lon. Pausa piacevolissima di altro genere potrete farla al Petit Hamman di via Sesia 41, 0115211914 non lontano dal mercato meltingpot di Porta Palazzo, luogo perfetto dove acquistare ogni genere di spezie. Il piccolo e curatissimo hamman, aperto tutti i giorni dalle 10 alle 20, ammette gli uomini il giovedì, dalle 20 alle 24. Consigliato il Savonage turco, saponatura rigenerante e distensiva.

 INFORMAZIONI

Dall’antica alla nuova Via della Seta, MAO, Museo di arte Orientale, via San Domenico 11, tel. 0114436927, fino al 2 luglio, info maotorino.it. È possibile effettuare visite guidate, idea da prendere seriamente in considerazione, prenotando allo 0115211788. Il costo aggiuntivo è di cinque euro. Altro piccolo e redditizio investimento è il catalogo, 35 euro, oltre quattrocento pagine, per approfondire la storia della Via. Prezioso nei saggi introduttivi, restituisce il percorso della mostra attraverso centinaia di splendide fotografie. Ogni pezzo, ritratto anche in dettaglio, si avvale di una scheda illustrativa che ne mette in luce storia e curiosità. Gli appassionati di pubblicazioni e gadget in tema di arte, non manchino una capatina al fornitissimo bookshop (lds)

Alla realizzazione della mostra hanno concorso, insieme alle collezioni del MAO, reperti da musei italiani ed europei. Tra questi il Musée du Louvre e il Musée Guimet di Parigi, il Museum für Byzantinische Kunst di Berlino, il generosissimo Museo delle Civiltà/ Museo Nazionale d’Arte Orientale Giuseppe Tucci di Roma, la Biblioteca Apostolica Vaticana, il Museo Nazionale del Bargello di Firenze, l’Archivio di Stato di Venezia. L’ultima sala è riservata alle opere di artisti cinesi contemporanei che si sono ispirati alle tradizioni antiche. Citazione speciale per Qiu Qijing, autore della scultura Capriccio d’acqua, in giada, evidente citazione delle onde di Hiroshige, e del gigantesco Cavallo, rame smaltato in nero, collocata nel giardino orientale che precede l’ingresso (lds)