«La vicenda è chiusa e l’ha chiusa Bersani che ora si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato. Sta a lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e se può, nell’interesse del paese». La sportellata arriva di sera. È il segretario del Pdl Angelino Alfano a chiudere strada a Bersani, o almeno a lanciare un ultimatum alla vigilia del ritorno al Colle del premier pre-incaricato per riferire dell’esito delle consultazioni. Una trattativa, un confronto negato fino all’ultimo da Bersani, che invece c’era: a giudicare per esempio dal colloquio fra Enrico Letta e Alfano ieri a Montecitorio . Ma è andato male. Alfano scopre le carte, e dal Nazareno, il quartier generale Pd, non resta che attutire il colpo: «Se il Pdl allude a una trattativa sui nomi per il Quirinale, non c’è alcuna disponibilità da parte del Pd». Il leader si trincera nel silenzio.

La via crucis della settimana di passione di Bersani a ieri sera si chiudeva così. Il no al «ne impediatur» è arrivato in anticipo. Si aspettava per oggi, sotto forma di una dichiarazione di Roberto Maroni in cui, accettando la «Convenzione» sulle riforme che il presidente pre-incaricato ha illustrato martedì alla delegazione Pdl-Lega-Gal (il gruppo di autonomisti di destra al senato), di fatto si accettava di «non impedire» la nascita del Bersani I. Chissà perché nei pensieri di Bersani e dei suoi la presidenza di questo organismo doveva interessare Berlusconi, l’uomo che ha fatto saltare la Bicamerale, notoriamente affaccendato in tutt’altro ordine di problemi. Da quella parte è arrivato un giudizio liquidatorio: «Ridicola». E una provocazione: Bersani premier e Berlusconi al Colle, o viceversa.

È finita così, e cioè male, la sesta giornata di consultazioni al primo piano di Montecitorio. Una giornata senza brividi: dall’incontro con la delegazione a cinque stelle, in diretta streaming, arriva un’apertura verso il Bersani premier e il suo governo in 8 punti. «Sono condivisibili, collaboreremo», annuncia il capogruppo al senato Vito Crimi. Ma sulla fiducia il no è netto. Più tardi Crimi a scappa una frase ambigua: «Se Napolitano fa un altro nome è tutta un’altra storia». Il portavoce del leader Pd Stefano Di Traglia replica via twitter: «Nel corso delle consultazioni l’ultima provocazione del M5S non l’abbiamo sentita». Crimi smentisce, tutta colpa dei giornalisti.

La polemica è pirotecnica, ma non è sull’M5S che Bersani aveva puntato per ottenere la fiducia delle camere; anche se può annotare la loro disponibilità a far marciare il governo. Il suo successore farà bene ad annotarlo. Il nodo era l’atteggiamento delle destre. E c’è poco da girarci intorno: decide Berlusconi e il suo team di avvocati. Il Cavaliere chiede un uomo suo al Colle, ma può accontentarsi di un «garante» «non ostile». Tradotto: che lo aiuti a far fronte alla caterva di processi di cui è imputato. La Lega e il ’Gal’, uscendo dall’aula di Palazzo Madama, gli esecutori finali della sua decisione.

Ma ci si può fidare della parola di Berlusconi? Per allontanare l’accusa di inciucio Bersani giura che in ogni caso nel suo programma «la tacca della legalità non scende»: non sarebbero derubricate le riforme sul conflitto di interesse e l’anticorruzione. E nega con forza l’esistenza di una trattativa sul nome del prossimo capo dello stato. Ma a Montecitorio le voci corrono.

Con la sportellata di Alfano la vicenda sembra chiusa. Stamattina Bersani consulterà la sua coalizione, e l’incontro potrebbe già trasformarsi nella ricerca del famoso piano B negato da settimane. Al Colle, con il suo canestro di fichi secchi, potrebbe salire anche oggi pomeriggio. E dire che ieri Maroni aveva fatto una mezza apertura: la Convenzione proposta da Bersani «ci interessa».

Lo scetticismo, fra i suoi, è alle stelle. Anche se il leader, ieri, prima del niet del Pdl si stava disponendo a chiedere di essere mandato comunque alle camere. Anche senza numeri: «Devo portare una valutazione conclusiva fatta di numeri ma anche di valutazioni politiche».I grillini dovranno ripetere anche «in parlamento» il no pronunciato in diretta streaming. Quanto al Pdl «in caso di risposta negativa, sta a loro dire cos’altro fare». Con un avvertimento: «Non c’è governabilità senza cambiamento». Vuol dire che il Pd non accetta larghe intese. E un governo del presidente, anche a guida super-tecnica, quotatissimo a Palazzo («Non ne parlo, non so cosa vuol dire», lo liquida Bersani), è solo un’altra maniera per fare le «larghe intese». Quelle che Bersani esclude. Ma che ogni giorno che passa nel Pd hanno nuovi fan. E Bersani ora rischia di trovarsi d’un colpo trasformato da possibile premier di minoranza a reale segretario di minoranza.