Si rinnova il sodalizio fra il fiorentino Teatro di Rifredi e il drammaturgo catalano Josep Maria Miró qui approdato due anni fa con Il principio di Archimede. Mirò affida a Angelo Savelli (sue traduzione e regia) l’ultima fatica, escursione nel cuore nero di una provincia maleodorante, contraddittoriamente incarnata nel titolo almodovariano Il corpo più bello che si sia mai visto da queste parti.
Da queste parti sono vergogne, molestie, segreti inconfessabili, crudelissimi istinti, famiglie squassate dalla violenza. La selvaggina di passo descritta da Mirò taglia il cielo con ferocia assassina e volgare eloquenza. Volteggia una esistenza mutilata da una sessualità fluida (come si dice oggi) che alla fine, i corpi vissuti come involucri estranei e irriconoscibili, assurge a valore simbolico, resurrezione, sconfinamento mistico. Di questa liturgia in cinque quadri e sette voci (Albert, il ragazzo del titolo trovato morto evirato, Antònia, sua madre, Júlia, la preside del liceo, Ricard, un falegname, il trans Eliseu più due contadini), si impossessa Maddalena Crippa.

VESTALE LUCIDA di una teatralità affabulatoria altamente contemporanea, Crippa solfeggia l’universo di Mirò agitando l’ala della consapevolezza e lasciando aperte le porte alla decantazione, al passaggio da un territorio all’altro, alla spiegazione di questo che è un brutto fatto di cronaca (le periferie di Mirò squarci senza identità geografica, pasoliniano emisfero) ma che rimane a ribollire sotto la cenere di un terrificante «effetto Rashomon».