A Vesna Ljubic, la prima regista bosniaca, scomparsa ad aprile per Covid all’età di 82 anni il festival di Trieste dedica un omaggio. Esordì in un momento speciale della sua cinematografia, quando un nuovo centro produttivo aprì le porte del cinema anche a intellettuali, scrittori, documentaristi. Dopo la laurea in Arte a Sarajevo, esperienze di cinema a Roma, al Centro Sperimentale, in Rai e sul set di Fellini, quando tornò a Sarajevo dopo il corto Putovanje (1973) e Simha (1975) per la televisione, esordì nel lungometraggio con Defiant Delta del 1980 (Kusturica esordì nel 1981) e L’ultimo deviatore della ferrovia a scartamento ridotto (’86). Si trovava in India dove realizzava documentari per la tv quando scoppiò la guerra e fece ritorno a Sarajevo dove restò per tutto il tempo dell’assedio.

A Trieste si vedrà il suo famoso Ecce Homo (Evo Kovieca, 1994) uno dei più impressionanti documenti sull’assedio di Sarajevo, in cui non c’è bisogno di parole o forse non ci sono «le parole per dirlo». La regista che decise di restare a Sarajevo durante la guerra girò il film nel corso di due anni tra il ’92 e il ’94 (poi portato fortunosamente in Italia per la lavorazione finale grazie alle volontarie dei Beati costruttori di pace).

Ecce Homo è una effusione di evidenze storiche, pietas, tratti umoristici con andamento ritmico, musicale, simile a quella di una funzione religiosa. Il trasporto dell’acqua nelle taniche di plastica su carretti improvvisati, o legati alle spalle con cinghie, trasportate dai bambini sui pattini a rotelle o in bici. Tutti di corsa per le strade o su per le scale, come un beffardo ricordo degli europei «giochi senza frontiere», sotto i colpi dei cecchini, scene alternate ai più diversi riti di sepoltura, musulmani, ortodossi, cattolici, ebraici, distese di croci, lapidi o pietre sepolcrali o tumuli sotto la neve, un’infinità di vittime.

Né servono a placare o interrompere le pratiche rituali le notazioni umoristiche posizionate come a monito di una popolazione che non si piega: qui in un flash, dopo i lamenti delle donne al cimitero si vede la donna elegante sui tacchi a spillo salire la scalinata trasportando l’acqua con nonchalance, una cloche raddrizzata, ricordo dei tempi passati.

È uno sguardo ben diverso dai tanti documentari dei filmmaker arrivati per pochi giorni a filmare dall’hotel degli stranieri come presenza immancabile per poi offrire la visione spesso pornografica di sangue e morte.

In Ecce Homo l’osservazione è più profonda, si amalgamano in un unico slancio poetico le stradine, l’intreccio delle diverse culture, il greto del fiume, le antiche cupole, i pinnacoli, la biblioteca dopo l’attacco e quello che resta dei libri bruciati, i suoni (dalle campane al gracchiare dei corvi), le canzoni e il coro finale dei ragazzi e ragazze di Sul bel Danubio Blu di Stauss («un popolo si riconosce quando canta insieme» diceva Iosseliani). Sui luoghi dell’assedio è tornato il progetto «Shooting in Sarajevo» del fotografo Luigi Ottani e Roberta Biagiarelli, scatti dal punto di vista dei cecchini.

Le notazioni umoristiche (già nella tradizione del «cinema nero jugoslavo») non mancavano neanche in tempi di guerra: ricordiamo che uno dei primi film arrivati da Sarajevo occupata, raccontava ricette di cucina senza cibo, realizzate con le erbe raccolte per strada, o la scelta ragionata dei libri da bruciare per riscaldarsi o cucinare.

Così è piuttosto trasversale il racconto che fa Vesna Ljubic dell’erboristeria in Basanska Rapsodia (2011), risposta dei medicamenti tradizionali raccolti dalle diverse comunità religiose rispetto alle moderne malattie, in realtà una satira politica sulla società bosniaca contemporanea dove si fa strada lo stress in tutte le sue forme, dalla sindrome del dopoguerra che continua a distanza dalla fine del conflitto, alle follie del neoliberalismo, alle promesse azzardate dei politici, ai predicatori per folle oceaniche. In questo film compaiono spunti di tradizioni ebraiche espresse per la prima volta in Simha, il documentario del ’75 sulla vita degli ebrei di Sarajevo, premiato come miglior film tv dell’anno e sviluppate in una sorta di fiction inventiva con spunti umoristici in Adio Kerida (2001) suo secondo film in programma a Trieste.

In un’epoca in cui tutti vogliono andare in America, un americano arriva a Sarajevo: è di origine polacca e prima ancora di lontane radici spagnole (come tutti gli ebrei sefarditi espulsi da Toledo nel 1500) arrivato in Bosnia a cercare le tracce di un prozio di Sarajevo, viaggio tra le strade della città vecchia, dove c’erano sette sinagoghe e 13 mila erano gli ebrei, tra case disabitate perché nessuno vi ha più fatto ritorno dopo la guerra: un fantastico apologo sotto forma di reportage, che termina con la bruciante sentenza che nessuna famiglia ebrea ha un albero genealogico perché i suoi rami sono stati tagliati nel corso dei secoli.