Fra i sette operai morti nel rogo al Macrolotto, quattro, forse cinque non avevano i documenti in regola. E la “Teresa Moda” era una ditta che ufficialmente aveva un solo dipendente, mentre domenica mattina nel capannone ce n’erano undici. Con un contratto d’affitto alla società immobiliare Mgf della famiglia pratese Pellegrini firmato da una cinese (Li Juanli) residente a Roma, al momento irreperibile. Bastano questi dati, sforzandosi di guardare al di là delle terribili condizioni di lavoro e vita nella fabbrica-materasso di via Toscana, uguale a mille altre, per capire quanta strada ci sia da fare. Se l’obiettivo è quello di trasformare un distretto che “funziona”, perché produce tanto denaro, in un distretto che rispetti i più elementari diritti del lavoro e dell’esistenza, ci vorrà un’autentica rivoluzione. Che sarà nemica, a occhio, degli affari.

“Saranno necessarie scelte coraggiose – avverte Enrico Rossi – bisognerà uscire dalle strade già battute”. Quella che sulla reciproca convenienza fra vecchi e nuovi residenti ha portato Prato ad avere in vent’anni, sotto amministrazioni di centrosinistra, circa 40mila cittadini cinesi, più o meno ufficiali. E quella pronta a farne dei capri espiatori, quando i venti della crisi hanno portato al governo della città un imprenditore para-berlusconiano (Roberto Cenni), e un assessore-sceriffo (Aldo Milone) passato da una giunta all’altra senza cambiare di una virgola la propria strategia d’azione, a colpi di blitz e interventi quasi quotidiani in capannoni e laboratori. In entrambi i casi, l’insuccesso è sotto gli occhi di tutti.

Ora Rossi sta spiegando in ogni occasione che non è più il caso di polemizzare fra destra e di sinistra: “Occorre fare punto e a capo”, ha detto l’altra sera a Matrix. Anche se poi in Consiglio regionale è stato subito contestato da quelli di Fdi. Il presidente toscano chiede al governo Letta un programma coordinato di interventi, definito da Stato, regione e istituzioni locali, da inserire in un accordo di programma da firmare entro tre mesi. “Per Prato serve una legge speciale – osserva – che riporti la legalità e assegni a ciascun ente i compiti da seguire. Occorre fare argine al turn over delle aziende cinesi, perché quando arriva la sanzione l’azienda non esiste più, ma ha riaperto con un altro nome e un altro titolare. Se poi bastano poche centinaia di euro per dissequestrare i materiali e le macchine, ogni azione ispettiva diventa vana”.

Quanto ai proprietari, italiani, dei capannoni, Rossi chiede di imporre l’obbligo di fare ispezioni periodiche, per verificare le condizioni di lavoro e di vita e denunciare eventuali abusi. Infine chiede la creazione di una grande banca dati che fotografi in tempo reale la situazione delle aziende e dei loro occupati. “Non sarà facile – riconosce – ma possiamo farcela se il governo si farà sentire nei confronti della Cina, a partire dal controllo dei visti in uscita. Capisco che i cinesi siano potenti, ma così non si può andare avanti”.

Un libro dei sogni? Al consiglio comunale di ieri è arrivato un messaggio di Enrico Letta. Con le condoglianze, anche un avviso ai naviganti: “Il governo vuole dare seguito ad un’azione di programmazione e risanamento in città”. Anche nella commemorazione delle vittime da parte della comunità cinese, uno degli imprenditori più conosciuti in città, Gabriele Zheng, ha chiamato all’azione: “Dobbiamo trasformare il dolore in forza, e agire per trasformare autonomamente le nostre imprese seguendo la legge”.

Intanto i proprietari italiani danno la disdetta ma non lo sfratto ai cinesi, per continuare a prendere lauti affitti senza fastidiose complicazioni giudiziarie. E ieri, nel giorno del lutto cittadino, alla manifestazione ufficiale in ricordo dei sette morti nel rogo c’erano poco più di mille persone. Quanto alle leggi speciali, sarà comunque dura: nel rapporto sull’imprenditoria straniera della locale Camera di Commercio, i ricercatori Dario Caserta e Anna Marsden segnalano che anche negli ultimi due anni il turn over imprenditoriale cinese in città è del 45,3%, contro il 13,2% delle imprese italiane. “Sproporzionalmente elevato”. Apri e chiudi: una ditta su tre “vive” non più di due anni.