Il pittore trecentesco Simone Martini in un «estremo ritorno» da Avignone a Siena, assieme a sua moglie Giovanna, al fratello Donato, alla di lui consorte e a uno studente di teologia, affronta un viaggio aurorale verso gli inizi, in direzione della maternità originaria (Siena diventa matria, non più patria) che simboleggia la condizione interiore di perfetta integrità. È la trama minima di una delle maggiori sillogi del secondo Novecento, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) di Mario Luzi. Un poema per frammenti, tra cristalli di verso e laterizi narrativi, lacerti di un’iconica essenzialità che funziona persino come discorso sull’arte, sul tramonto del sublime – incarnato da Simone, alter ego del poeta – contro le nuove tendenze espressive. Ciò che si nota, in particolare, nel complesso e autotrofo organismo della poesia luziana è il transito da un pensiero statico e «ipernutrito», potremmo dire ‘petrarchesco’, a una concezione «del fluire e dello scorrere, della trasformazione come principio dinamico della realtà, mai conclusa in sé ma sempre aperta al suo compimento possibile, all’attesa e al desiderio che nella parola manifesta».
È questa l’intuizione critica principale del libro di Daniele Piccini, Luzi (Salerno Editrice, pp. 368, € 24,00), la più aggiornata monografia che sia apparsa sinora sull’esperienza letteraria dell’autore fiorentino. Sin da Su fondamenti invisibili (1971) – ma un passaggio decisivo è stato il teatrale-diegetico Nel magma (1963-’64), prima vera manovra di «immersione nel quotidiano» – una virtù «salutare» e spalancata al cangiante flusso dell’esistere informa la poesia di Luzi, che «trova il suo punto di fuga» «non nella pura mimesi del reale», «quanto piuttosto in una ricerca del fondamento stesso dell’essere e, soprattutto, nell’adesione alla metamorfosi». Una scrittura ‘ontologica’, dunque, che propone la continua tematizzazione del vivente contro le algide stilizzazioni del periodo ermetico-simbolista (all’incirca dall’esordio con La barca, 1935, fino a Onore del vero, ’57). «Senza dubbio su questa visione delle cose – prosegue Piccini –, tese a una pienezza a venire, influisce il pensiero teologico del gesuita francese Teilhard de Chardin (1881-1955), che costituisce una lettura decisiva per Luzi». (Si ricordi l’amara e ironica lirica montaliana A un gesuita moderno, presente in Satura e dedicata proprio a Chardin, per misurare tutta la distanza formale e concettuale, soprattutto negli esiti ultimi, tra Montale e Luzi.)
Ma la teoresi si allunga e acquista concretezza sull’impasto linguistico, poroso e materico, che riesce a «far coesistere naturalezza (termine centrale nella riflessione luziana) e memoria, densità e trasparenza, senza mai mettere in crisi la sostanza umana, il calore della presenza».
Grazie a questo piano stilistico alterno che ha la sua esecuzione metapoetica in Vola alta, parola, cresci in profondità («tocca nadir e zenith della tua significazione, / giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami / nel buio della mente – / però non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me / o almeno il mio ricordo, sii / luce», da Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985), Piccini propone l’altro decisivo approdo che sottolinea un’importante lezione artistica: se l’ontologia (e la teologia o ateologia) di Leopardi, Montale e Caproni è «di segno negativo» – seguendo ancora una volta una carsica linea petrarchesca –, «l’humilitas di Dante, come Luzi la definisce» coincide con il «ritrovare a monte del discorso moderno un atteggiamento creaturale, esito verso cui congiurava anche l’insegnamento di Betocchi».
La riconosciuta creaturalità è l’elemento precipuo capace di condurre Luzi dall’incandescente movimento dialettico e diairetico del suo ‘secondo tempo’ a quel «culmine paradisiaco della parola» che raggiunge la sua acme proprio in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Tensione liminare traducentesi in visione somma, eccedenza e conseguita oltranza del dire, interiezione beatifica infarcita di latinismi dal sapore dantesco, che passa comunque per «una nominazione della sostanza, colta attraverso il travaglio, il tormento, la metamorfosi».
A ciò contribuisce non soltanto l’opera in versi nella triade delle sue tappe fondamentali, ma anche la lunga e ponderata evoluzione saggistica (da L’inferno e il limbo, 1949, alla Naturalezza del poeta, ’95) e persino il vasto sentimento tragico che campeggia la produzione teatrale (dal Libro di Ipazia, ’78, a Il fiore del dolore, 2003), indagati da Piccini non come parti avulse dal contesto, ma come fluidi di un sommovimento diretto alla risalita (ungarettiana?) «dalle foci alle sorgenti», secondo «un’unità nella trasformazione». Sorgenti di un mondo perennemente «in ansia di nascere», visto nella sua mirifica accoglienza femminile. «Non lasciare deserti i miei giardini / d’azzurro, di turchese, / d’oro, di variopinte lacche / dove ti sei insediata / e offerta alla pittura / e all’adorazione, / non farne una derelitta plaga, / primavera da cui manchi, / mancando così l’anima, / il fuoco, lo spirito del mondo».