Nel dibattito interno al Pd sembra prevalere un’attenzione spasmodica intorno a tre temi: le regole in base alle quali dovrà svolgersi il rinnovo degli organi di partito; il rapporto che dovrà stabilirsi tra segretario del partito e candidato premier con ipotesi che oscillano tra l’unificazione e la sovrapposizione dei due ruoli; i diversi posizionamenti, ora definiti, con termine sofisticato, «endorsement» da assumere a favore dei candidati da parte delle correnti, gruppi, leadership locali.
Dietro questo scenario permangono contraddizioni plateali, non tanto sui programmi dei potenziali candidati ai ruoli prima citati, quanto sulle loro ideologie di base. Proviamo ad esemplificare, in base ai materiali di conoscenza disponibili, scegliendo, per comodità di esposizione, due soggetti di riferimento che, pur appartenendo allo stesso partito, il Pd, sembrano rappresentarne, ed è questo che cercheremo di dimostrare, idee-guida diverse o attenzione non univoca a problemi che impongono immediata soluzione. (…)
Confrontiamo ora le posizioni (Fassina vs Renzi) su questioni prioritarie in un progetto della sinistra. Iniziamo dal lavoro. Fassina lo considera epicentro etico e politico di un «New Deal» globale, da definire nella sua natura economica e sociale. Al quale ridare «dignità» e restituire specificità nel discorso pubblico, recuperandolo da componente indifferenziata delle forze produttive e da una mera funzione di accumulazione e di potere di acquisto. A una solenne affermazione di principio non sono seguite finora però proposte di riforma del mercato del lavoro.
Nell’ultimo Renzi invece manca totalmente un accenno al lavoro, oltre che al mercato del lavoro. Se nel 2011 il modello di riferimento era il contratto unico di Boeri e Garibaldi, e nel programma del 2012 si proponeva la flexicurity di stampo scandinavo, nell’elaborazione della proposta attuale non si individua alcun riferimento alla questione lavoro, con l’eccezione di una proposta francamente discutibile: creare nuovi posti di lavoro con risorse recuperate dai pensionati «ricchi». Si legge nel documento: se per i 500mila pensionati che percepiscono da 2.405 a 3.367 euro (da cinque a sette volte la pensione minima) si interrompe l’adeguamento all’inflazione per due anni si può recuperare un miliardo di euro.
Per le pensioni superiori di sette volte il minimo andrebbero infine previsti tagli del 10 per cento e blocco dell’adeguamento all’inflazione per 3 anni: avremmo così un risparmio di tre miliardi il primo anno e di 3,8 miliardi dal terzo anno in poi. Anche per le pensioni che superano di tre o cinque volte il minimo, quelle che vanno da 1.443 fino a 2.405 euro al mese lordi, si potrebbe pensare di dimezzare l’adeguamento all’inflazione per un anno, con un risparmio di 0,7 miliardi l’anno. Questi risparmi potrebbero servire a finanziare 650mila giovani in servizio civile o apprendistato a cinquecento euro al mese, come accade in Germania. Con una contraddizione, però, tutta da sciogliere: il rischio di perdita di consenso da parte di un’area consistente di voto (quella dei pensionati) a favore della creazione di «easy job», destinata ad allargare il pernicioso problema del precariato. Oltre che l’ignoranza di pronunciamenti costituzionali che in passato hanno escluso interventi sulle pensioni fuori da un contesto generale di riforma del sistema fiscale.

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