Uno dei versi della raccolta d’esordio di Silvia Rosa, Di sole voci, poco più di dieci anni fa, faceva riferimento a «terrestri radici di senso»; e l’intera raccolta era stata interpretata, dalla critica, come un «tentativo inesauribile di rimanere appigliata» a queste radici, quali «incerta nostalgia di un Altrove» (nelle parole del verso successivo).

OGGI, alcune raccolte dopo, nella felice maturazione di un percorso, quei versi e quella interpretazione acquistano anche il senso di un presagio o di un destino, se è vero che la nuova silloge di Silvia Rosa, appena uscita da Vydia editore, contiene quel medesimo riferimento fin dal titolo, Tutta la terra che ci resta (pp. 84, euro 12): e tuttora l’autrice vi si aggrappa, come ci si aggrappa all’unica possibile fonte di salvezza. Ma è una salvezza che pare contenuta in un futuro al quale occorrerà fare ritorno, piuttosto che nel presente che abbiamo costruito e stiamo vivendo.

Da questo punto di vista, Tutta la terra che ci resta può essere letta come una vera e propria fotografia del nostro tempo. Potrebbe sembrare una distopia (tanto che in più di un’occasione l’incedere dei versi assume un ritmo quasi convulso, quasi a voler tradurre sulla pagina il vortice di un incubo), ma non lo è. Forse a tratti l’immagine è leggermente deformata, questo sì, e tuttavia sono sempre poco più o poco meno di licenze poetiche: nessuno potrebbe negare il realismo di descrizioni che ci ritraggono – che ritraggono tutti noi – alla stregua di esseri «privi di olfatto», «bidimensionali», incapaci perfino di qualunque «attività onirica» che non sia «regolata ormai/ da una matrice, un QR code siderale/ che collega tutti i sogni a un baricentro/ cinetico»; o di esseri nei quali una forma di «anestesia generale» ha preso il posto «di ogni emozione», il «pensare efficiente» quello dei desideri. Come se non fossimo votati ad altro, oggi, se non a questo: a un «predisporsi a essere/ai minimi termini – modello base – leggeri/quanto uno sputo di cenere al vento».

HA RAGIONE ELIO GRASSO, nella prefazione, quando afferma che manca un «io» individuale, in questa raccolta, «ma non per difetto di figura e dialogo»: manca per il semplice fatto che Silvia Rosa ha voluto metterlo da parte a favore di un «io» collettivo, di un «noi» per quanto frammentato («Manca profondità a questo andare», recitano alcuni dei versi più belli, «uno sguardo d’insieme, il talento/ di sopravvivere alle lesioni del buio»). Ecco: se talvolta si rimprovera alla poesia contemporanea di rimanere estranea alla Storia, di non volervisi sporcare le mani, qui i versi di Rosa – che riescono ad aprire squarci di lirismo pur in mezzo alla freddezza informatica e tecnica di molti dei termini usati – smentiscono del tutto questo assunto.

Al contrario, Tutta la terra che ci resta è pienamente immersa nel nostro tempo e nella sua essenza. Ci fa i conti, e li fa senza moralismi: proprio perché i conti riguardano ciascuno di noi, ciascuno nella propria dispersa singolarità.
Rosa, in definitiva, non è interessata ad accusare o ad assolvere. Semmai, quello che propone è di cercare una via di fuga, quella possibile salvezza cui allude fin dal titolo: ed è nei nostri sensi che sembra trovarla, nella necessità di provare a recuperarli – a partire dal tatto, dall’olfatto e dalla vista. Senza voler tematizzare troppo, una poesia in particolare ha tutta l’aria di poter assurgere a vero e proprio manifesto, sotto questo aspetto.

È QUELLA IN CUI ROSA prova a stilare, in primo luogo evidentemente a beneficio di sé stessa, un elenco di azioni da compiere «In caso di necessità». Sono poche, ma a loro modo decisive: «rompere il vetro (…) uscire dal campo recettivo, seguire/ le coordinate che conducono alla curva/ dello stupore (…) allenare il terzo occhio, la ghiandola pineale,/ il sesto senso (…) trafugare la frenesia degli amanti/ e riprodurne gli aromi». Ma soprattutto, «Soprattutto, individuare subito, per prima, fra tutte le altre evenienze/ l’uscita d’emergenza».