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In uno scritto del 1994 dedicato alla sua città di origine, Vorone, Elena Fanajlova – che si è anche conquistata una solida fama come giornalista e corrispondente di Radio Svoboda – ricostruisce la geografia spirituale del suo luogo natale, tra provincia agricola e terra di esilio, ricordando i nomi di Ivan Bunin, Andrej Platonov, Evgenij Zamjatin, Boris Ejchenbaum, Vladimir Narbut e, in particolare, quello di Osip Mandel’štam, che nell’esilio compose i celebri Quaderni di Vorone. La poesia di Elena Fanajlova, della quale la casa editrice Gattomerlino presenta ora nella serie «I poeti della Fondazione Brodskij» la raccolta Lena e la gente. Poemi e poesie 2003-2014 (a cura e traduzione di Claudia Scandura, pp. 100, euro 12,00) parte dalla grande tradizione letteraria del XX secolo, che riscoprì con stupore e passione negli anni giovanili e dalla quale recepisce e assimila temi e stilemi combinandoli con uno specifico afflato pubblicistico e militante, così che il suo testo poetico si trasforma in testimonianza e pamphlet in versi.

Allo stesso tempo, il piano individuale, autobiografico, si complica nel doppio riferimento culturale alla Russia e all’Ucraina. Non a caso uno dei suoi libri più noti, Versione Russa, particolarmente apprezzato negli Stati Uniti, mette a nudo uno dei problemi centrali della poetica di Elena Fanajlova, tutta volta a evidenziare la specificità della mentalità russa e della sua rappresentazione linguistica, per rispetto della quale il poeta è in qualche modo costretto a farsi traduttore, interprete dei valori universali. Valori universali che Elena Fanajlova difende non solo nella sua attività di giornalista e pubblicista, ora più che mai in occasione della crisi ucraina, e che costituiscono la base del messaggio filosofico e morale della sua poesia, dalla raccolta Con particolare cinismo del 2000, fino al recente Lena e la gente del 2011.
La cernita proposta da Claudia Scandura presenta alcuni testi assai indicativi delle specificità tematiche e compositive della poesia di Fanajlova. Il poemetto Afghanistan, nella crudezza e violenza delle situazioni descritte, si costruisce quasi come un reportage dalle retrovie del fronte, evidenziando la crudele vacuità della guerra e l’inconsistenza del mito del sovok (termine che giocando sull’assonanza indica il mondo sovietico, alla lettera «paletta per raccogliere la spazzatura»).

Sempre più orientata verso una poesia del parlato e del quotidiano, nel poema Lena e la gente Fanajlova sviluppa in versi liberi un dialogo ricco di dettagli della vita di ogni giorno, trasferendolo in una sorta di discorso sui massimi sistemi. Nel ciclo Abiti scuri i toni si fanno assai più duri, la realtà acquisisce i tratti del pulp tra citazioni da Tarantino e Takeshi Kitano. Ugualmente legati alla concretezza del vissuto sono i versi dedicati alla Bosnja, quasi delle corrispondenze tra testimonianza storica e autobiografia senza veli. Autobiografiche sono anche le poesie dedicate alle due nonne, una russa e l’altra ucraina, come a ribadire la molteplicità dei punti di visti e il continuo mutare dei toni poetici. Tre liriche – Versi su Roma, dedicati all’amico scomparso Grigorij Daševskij, noto poeta e traduttore di poesia antica – furono scritte nella città eterna, sfondo quasi impercettibile nell’oro del tramonto e della morte.

In una di queste liriche, Fanajlova prende spunto dal celebre frammento di Adriano Animula, vagula, blandula… nella versione di Ezra Pound, per sottolineare l’incomunicabilità dei mondi («noi veniamo da un altro mondo, da un’altra guerra») e l’ineffabile lontananza della classicità romana in rovina.