Fin dalle prime poesie che Pier Paolo Pasolini gli pubblicò nel 1968 su «Nuovi Argomenti» Tommaso Di Francesco si è voluto poeta ermetico. Anche i versi recitati nel caveau di via Ripetta, tra i giovani destinati a far rinascere la scuola romana di poesia, quella iniziata con Corazzini in via dei Sediari, accanto a piazza Navona, erano di stampo ermetico. Ma, a ben vedere, il suo era e rimane un ermetismo, istintivo, di vita.
Come in Trobar, prefato da Roversi e in Cliniche, che aveva l’introduzione di Franco Fortini, anche in questo ultimo poema A contendere con la sottodicitura «quartine da remoto» (Asterios editore, pp. 118, euro 13) con una nota di Massimo Raffaeli, torna l’ermetismo. Non si tratta di quello fiorito sotto il fascismo, quando i poeti furono costretti a diventare ermetici per non incorrere in censure. «A contendere» qui, sperando in una trattativa, sono la parte razionale e irrazionale del poeta, con un lettore chiamato a trattare, a ricucire il corpo materiale e immateriale.

DOPO un primo innamoramento de Gli amori gialli del poeta «maudit» Tristan Corbière, venne il « trobar clus» di Amelia Rosselli a trattenerlo dalla poesia-prosa, come è venuto di moda oggi, dal confondere la poesia e la vita. Il sessantottino Tommaso aveva voltato le spalle al guazzabuglio di chi alle prime sconfitte del Movimento recitò versi nostalgici e sfilacciati come quelli sentiti dai cosiddetti «poeti della sabbia» detti «minestrones» al Festival internazionale di Castelporziano. Non aveva dimenticato Il Capitale di Karl Marx, come chi era finito nelle braccia degli strizzacervelli, dando retta solo alle proprie nevrosi. Come in Reificar, uscito negli anni Ottanta con la prefazione di Franco Fortini, anche qui appare la «cosificazione» marxiana, che non riguarda soltanto la massa esteriore ma anche quella interiore, che grida con il suo io frammentato per uscire dal recinto globale del sistema delle merci del capitalismo.

MA MARX E FREUD sono griglie interpretative arrugginite per il poeta globalizzato, che vive tra il recinto delle merci in cerca di un’uscita. Queste «quartine da remoto», alludono all’attualità del covid ma anche alla poesia che per Di Francesco da sempre «circolare» riguarda gli eterni ritorni vichiani. Raffaeli dice bene di «endecasillabi disposti a specchio, quali corrispettivi di un dentro e un fuori» come in un «contrasto» delle origini della poesia italiana. A volte sembrano versi dettati da una interna follia rischiarati con questi versi: «Non i defunti fanno tanto il terrore/ ma i vivi nelle tombe del presente,/ nemmeno la guerra che s’annuncia/ nuova, ma l’attesa lotteria del giorno». E ancora: «Ora che li vediamo gli umani tutti/ più di quanta morte ne avria distrutti/ la cute s’abbandona all’epiderma,/ si fa maschio d’impotente sperma». Avrete notato l’allusione a Eliot che riprende Dante ne La terra desolata. Il poeta seguitando si definisce: «Sufi sei, giri intorno a te fino a sfinirti,/ ruoti l’universo dei sensi rianimato/ e la testa si fa vuota e persi di sensi/ ogni giorno in lenta trottola lenta». E dopo aver detto:

«Condivido un niente ch’è presente» canta: «Vengo dagli inermi, dai rassegnati/ della specie mia, i fuggitivi umiliati/ che non arrivano agli arrivi, io giungo/ da pagine analfabete, dalle a alle zete». E sono i versi suoi più chiari, forse ricalcati ironicamente dai patriottici: «Dagli atri muscosi, dai fori cadenti..» o dalla forza del passato di Pasolini. Il mondo globalizzato è dunque sfigurato e anche Roma, che pure si affaccia nelle sue periferie, è irriconoscibile,«un grande niente che è presente».

In A contendere compaiono i poeti amati, da Amelia Rosselli, posta ad apertura del poema, a Pasolini, presente nella sua intervista a Ezra Pound, a Ghiannis Ritsos. Ma occhieggiano anche Kafka e Rossana Rossanda, che fu abbandonata per qualche ora dalla sua gatta proprio quando aveva lasciato Parigi.
Forse in polemica con Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante compaiono questi versi: «Tutto d’un fiato il mondo davante/ che andava mondato dai ragazzini/ all’improvviso venne in un istante/ salvato da lucenti privati magazzini».

NELLE PENULTIME quartine riaffiorano, rielaborati, versi che Di Francesco aveva scritto da ragazzo: «Viene come le pieghe non lo rivelino/ con vele incolori per evitare suicidi/ e i genocidi dei fratelli della storia,/ della storia di perdita a memoria». Le vele del mito erano nere. In tutte le raccolte poetiche di Tommaso Di Francesco, prima o poi, compare il mito. Ecco il mito delle origini riattraversa questi versi, li feconda, come il mito dei vulcani sottostanti le città, che prima o poi riesploderanno o come quello del sacrificio umano per la nascita degli antichi assembramenti. Sembra che senza il mito la poesia del presente globalizzato non possa esistere.
Deve poggiarsi a qualcosa il moderno, proprio come nei grandi del Novecento, da Eliot a Pound e per la narrativa a Joyce. Come dire in prosa i colpi di panico di un poeta che, anche in altra veste, ogni giorno assiste ai fuochi accesi e spenti nel pianeta? Come può la parola poetica non farsi oscura, come oscuri sono i proponimenti degli assassini della terra? Quel «da remoto» vuol dire che questi sono versi nati in cattività, e non si tratta «solo» di pandemia.