Lascia in tutti quelli che l’hanno conosciuta il segno della sua grande signorilità, della sua dolcezza, Veronica Lazar domenica scomparsa, attrice, moglie di Adolfo Celi, madre di Leonardo e Alessandra, amica per affinità elettiva di Bertolucci e Antonioni, donna di cultura e interprete emblematica di classici come Ultimo tango. Sostenitrice del manifesto, l’abbiamo conosciuta come grande organizzatrice di cinema di una delle cinematografie, quella rumena, sconosciuta in Italia, prima dei grandi successi internazionali firmati da Cristian Mungiu. Nata a Bucarest nel ’38, uscita dal paese alla fine degli anni cinquanta, con lei abbiamo percorso in auto le strade della città uscita da poco dalla dittatura di Ceaucescu, di cui raccontava la storia, si indignava per la situazione, per i quartieri spazzati via per costruire il palazzaccio del dittatore, indicava l’università che frequentava prima di arrivare in Italia. Con lei abbiamo visitato la scuola di cinema un attimo prima che esplodesse il fenomeno «cinema rumeno», grande vitalità e movimento di giovani e, uscendo, mi raccontava per inciso, che da una porta si entrava per studiare cinema, ma dalla parte opposta c’era anche quella che serviva per entrare nella sede della polizia segreta, la famigerata securitate.

Laureata all’istituto di teatro e cinematografia di Bucarest ottenne poi un secondo diploma in psicologia a Roma dove ha esercitato fino al ’94 la professione, iscritta all’albo degli psicologi e psicoterapeuti, fino a raggiungere i livelli più alti, anche come saggista ed esperta presso il ministero di Grazia e giustizia e inviata in missione per il ministero degli esteri. Per noi era l’ambasciatrice culturale del cinema rumeno e svolgeva lo stesso ruolo anche per la diffusione del cinema italiano in Romania, un’attività iniziata nell’89 e proseguita con periodiche rassegne a cominciare dal ’99 durante le quali far vedere i grandi film, le commedie, i grandi attori, il nuovo cinema, mostrare le rassegne di Bertolucci e Pasolini presso il centro culturale italiano di cultura di Bucarest e nelle sale strapiene di giovani, film che certamente hanno lasciato qualche traccia nel giovane cinema rumeno. Anche a Parigi portò il sogno di una Cinecittà ricreata a Bucarest con una memorabile mostra di immagini e documenti perduti o censurati da lei ritrovati nell’Archivio nazionale, insieme ai film di coproduzione girati tra il ’41 e il ’46, Odessa in fiamme di Carmine Gallone, Manette rosse, censurato per cinquant’anni in Romania, Allarme a Campina interrotto dalla guerra.
Questo suo percorso spiega meglio di qualunque altra cosa il suo sodalizio con le figure degli intellettuali italiani del nostro cinema, i più intransigenti come Antonioni che lei conobbe nel ’72 ben prima di partecipare ai suoi film, accolta nella sua stretta cerchia di amici, vissuto come un padre, meticoloso nella ricerca di perfezione della bellezza. Con lui è interprete in Identificazione di una donna, Al di là delle nuvole (e per una piccola parte, raccontava, portò con sé due grandi valige con abiti per farlo divertire a scegliere). Bernardo Bertolucci la chiama a interpretare molti dei suoi film: campione di immersione subacquea nell’animo umano, nell’Ultimo tango non a caso ne fa il simbolo del sogno della donna che non tornerà, «povera Ofelia annegata in un bagno», Rosa, la moglie suicida di Paul-Marlon Brando che tanto non risponderà alle sue invettive(«ma chi diavolo eri tu?»). E poi La Luna, L’assedio, e Io e te, dove interpreta la nonna, la sola a cui Lorenzo può confidarsi.
Più che un’interprete, una figura simbolica, protettiva presenza dall’aura ispiratrice. Come in un flash la ricordiamo arrivare a uno dei primi festival dei cineclub italiani che organizzavamo a Salsomaggiore nei primi anni ’80, frequentati da Bertolucci e Godard. E Dario Argento non poté non essere toccato dalla sua immagine di baronessa rumena (lo era) alta e ieratica, misteriosa (e molto militante) proveniente dal paese dove, raccontava, stavano per costruire il parco giochi dedicato a Dracula: Inferno, La sindrome di Stendhal (più L’aldilà di Lucio Fulci).

Non a caso partecipa anche a Ginostra, un film di un autore francese, Manuel Pradal dall’esordio accecante, Marie Baie des Anges, accanto a Harvey Keitel e Henry Dean Stanton. Ma l’affinità maggiore deve averla avuta soprattutto con un altro grande, il marito Adolfo Celi, da noi considerato un attore epocale, ma in realtà grandissimo regista oltre che fondatore di una vera corrente teatrale e cinematografica, come dimostra tutta la sua attività poco conosciuta che svolse in Brasile, raccontata benissimo dal figlio Leonardo nel suo documentario (Adolfo Celi, un uomo per due culture).