La casa editrice Capovolte di Alessandria ha di recente pubblicato, nella bella collana «Intersezioni», La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto (pp. 336, 18 euro) di Verónica Gago, ricercatrice e attivista all’interno del collettivo femminista e transfemminista Ni Una Menos in Argentina. In questo testo, tradotto con perizia da Silvia Stefani, Gago si situa al crocevia fra ricerca e azione, rivolgendo lo sguardo alle lotte femministe che stanno scuotendo le strade dell’America latina dal 2016.

Il testo traccia la genesi e la ragion d’essere politica del movimento Ni Una Menos a partire dalla marea di scioperi in risposta al femminicidio della giovane Lucía Pérez. Questa mobilitazione è il punto di partenza di un movimento di protesta di massa– 500mila scioperanti nel 2017, poi 800mila nel 2018 e 2019 – agito da diversi collettivi femministi in Argentina.

Il titolo del suo libro contiene in sé la parola «potenza», sulla quale torna spesso evocando una teoria alternativa del potere. Alternativa in quanto portatrice di quella che lei chiama «indeterminatezza». Può spiegarci l’importanza di distinguere «potere» da «potenza» e il valore dell’«indeterminatezza»?
Quando parlo di «potenza femminista» mi riferisco al processo che in questi anni ha fatto del femminismo un movimento di massa, radicale e internazionalista. Intendo la potenza come una forma di contropotere: una capacità di inventare, organizzare e andare oltre ai limiti dell’esistente, ponendo il desiderio al centro di una strategia collettiva. L’indeterminatezza qui non è né più né meno che la capacità di negare ciò che esiste e, in questo stesso gesto, aprire altri possibili. Il movimento femminista pratica una serie di rifiuti sistematici delle cose «così come sono», identifica focolai concreti di sfruttamento, impunità e depredazione, restituendo immagini precise delle violenze e della loro articolazione come un ingranaggio della vita quotidiana. Con l’occupazione di massa e prolungata delle strade si genera una relazione di forze che si traduce e si fa capillare all’interno di tutti gli ambiti, nelle forme di sensibilità ma anche nei modi di discutere la concentrazione della ricchezza, nella lingua, nei modi di vivere le corporeità e di contestare le risorse. Nel libro insisto sul fatto che non si tratta di una teoria ingenua del potere che celebra molecole desideranti disperse e spontanee o impulsi isolati.

Mi interessa molto pensare come la potenza femminista affermi un potere di altro tipo, espanda un desiderio di autonomia a una scala di massa e implichi un lavoro di produzione di alleanze come forma di durata politica. Non si tratta di una potenza personale o di una forma di «impoteramento» individuale, ma di qualcosa che emerge e si espande nell’azione collettiva e che, a partire da lì, produce forme di soggettivazione innovative.

«Nos mueve el deseo» (Ci muove il desiderio) è una delle chiavi espressive di «Ni Una Menos». Può dirci in che senso il desiderio non rappresenta l’opposto del possibile e perché, in quanto frutto di un intelletto collettivo, esso ha un potenziale cognitivo?
Effettivamente è stato uno slogan del nostro collettivo che si è divulgato e che indica il desiderio come una forza, una capacità di mobilitazione, non come un attributo individuale che il mercato può sfruttare. Dire che ci muove il desiderio di cambiare tutto è un modo anche per sovvertire l’enunciazione vittimistica e vittimizzante che tanto piace a mezzi di comunicazione, che limitano il compito del femminismo a un conteggio necropolitico dei femminicidi. Il desiderio non è una positività ingenua né puramente affermativa. Il desiderio ha a che fare con il lutto, il dolore, con l’ingiustizia, con l’impunità, ma mettendo in primo piano una trama collettiva per la sua diffusione, che assume molte forme, linguaggi e strumenti. Costruire un slogan politico sul desiderio è un modo per aprire una zona problematica, di indagine, che – a mio avviso – i femminismi non eludono né risolvono, ma a cui sono capaci di dare attenzione: che cosa desideriamo? Come si fa spazio al desiderio in condizioni così precarie? Cos’è questo desiderio di rivolta che ci fa continuare a stare nelle strade, nelle piazze e nelle case «tessendo» femminismo? Come leggere le controffensive che ci rispondono? Quando parlo di desiderio programmatico faccio riferimento a una politica che non può rimanere al di sotto di una pragmatica vitalista, desiderosa di rivoluzionare tutto e per questo stesso motivo dotata della capacità di reinventare quel realismo che implica vittorie puntuali, precise e concrete.

Invece di internazionalismo lei preferisce parlare di transnazionalismo e spiega come una cartografia che alimenti risonanze globali dall’America Latina e dal Sud del pianeta sia in grado di dare voce a quello che lei chiama «corpo-territorio»; e alle lotte anti-estrattiviste delle donne indigene nere afrodiscendenti dell’America Centrale. Può dirci di più di questo «corpo-territorio»?
È una parola chiave, un concetto potente sorto dalle lotte anti-estrattiviste. È strategica in un senso molto preciso: amplia un modo di «vedere» a partire dai corpi sperimentati come territori e dei territori vissuti come corpi. Pone una continuità politica ed epistemica, contro il taglio «individuale» dei contorni del corpo e contro la frontiera privata del territorio. È impossibile isolare il corpo individuale da quello collettivo, il corpo umano dal territorio e dal paesaggio. Il corpo-territorio riesce a mettere in gioco alcuni saperi del corpo collettivo sulla cura, l’autodifesa, l’ecologia e la ricchezza e, al tempo stesso, a sviluppare l’indeterminatezza delle sue possibilità e dei suoi saperi perché la sua esistenza dipende dal tessere alleanze. Inoltre il corpo che esiste in quanto territorio è la spazialità contrapposta alla chiusura domestica, al confinamento dei mandati, dei ruoli di genere. Quindi è una nozione «operativa» anche per varie geografie e conflittualità.

Nel suo testo lei spiega a più riprese il valore dello sciopero femminista in quanto «strumento pratico di ricerca politica». In che modo sarebbe capace di costruire una trasversalità tra corpi, conflitti e territori differenti?
Sì, lo sciopero femminista è stato un enorme esercizio politico per ampliare in termini pratici ciò che intendiamo per lavoro, per dare delle immagini concrete alla nozione di precarietà (che può essere una nozione che dice tutto e niente al tempo stesso), e per produrre una forma di sciopero che riesca a contenere tutte quelle realtà lavorative e vitali, molte delle quali storicamente escluse dalla possibilità di questa pratica. Contestare una nozione di classe lavoratrice che contenga coloro che storicamente sono state e stati soggetti declassati e resi subalterni per questioni di genere e razza è qualcosa che lo sciopero femminista fa in termini di prassi. In questo senso mi interessa molto porre l’attenzione su come lo sciopero femminista si fa carico di coloro che non si possono fermare e al tempo stesso vogliono essere parte dello sciopero e su come lo sciopero ampli le spazialità considerate «lavorative», mentre al tempo stesso contesta ciò che si intende come conflitto se mettiamo la riproduzione sociale al primo posto.
L’ambiguità tra ciò che sembrava rallentare e l’accelerazione della precarizzazione dei corpi, della possibilità di respirare, delle ore dedicate a giornate di lavoro che si estendevano senza pausa per dare assistenza e fare acquisti per chi non poteva, per occuparsi di questioni scolastiche e per contenere disturbi psicologici. Per questo, dopo due anni di pandemia, l’ultimo sciopero femminista è stato la chiave per elaborare questi temi e tornare a prendere le strade, dopo che ci siamo dovute reinventare nei territori dell’urgenza.

Negli otto capitoli del libro le sue analisi dialogano con le tesi di alcune figure del femminismo internazionale: tra le altre Rosa Luxemburg, Rita Segato, Suely Rolnik, Mara Viveros Vigoya, Silvia Federici e Raquel Gutiérrez Aguilar. L’ottavo capitolo si costituisce come un manifesto sintetico delle problematiche affrontate. Qual è l’importanza di un manifesto?
Il registro del manifesto è stato molto presente in questi ultimi anni di movimento, ovviamente attualizzando una pratica storica, producendo per molte e molti una esperienza attuale di scrittura politica, di traduzione, di disseminazione di concetti, slogan ed esperienze. Nell’ultimo capitolo del libro prende forma questo impulso sintetico, con l’obiettivo anche di permettere una lettura rapida e condensata dei punti centrali. Mi affascina molto leggere il testo collettivo che si va formando nelle parole d’ordine del movimento, come espressione ingegnosa e molte volte poetica che coniuga intelligenza nei confronti dell’analisi e della chiamata all’azione, che consente traduzioni, risonanze e reinterpretazioni successive. L’importanza di questa lingua-manifesto è che essa cerca, ripetutamente, di esprimere un’urgenza e questa relazione magnetica e particolare tra le parole e le lotte.