Roberto Andò prima ancora che regista cinematografico è un raffinato intellettuale. Il suo curriculum prevede proficue frequentazioni che si sono trasformate in opportunità di realizzazioni concrete con Sciascia, Calvino, Pinter, Battiato, Fellini, Rosi e moltissimi altri. Al punto che il suo film d’esordio, Il manoscritto del principe, è un raffinato racconto su Tomasi di Lampedusa, due allievi e la scrittura de Il gattopardo. Da allora ha continuato la sua attività su più fronti: scrittore, sceneggiatore, regista di opere liriche e teatrali. Tutto questo per dire che ogni suo nuovo film suscita aspettative perché il suo approccio e la sua chiave di lettura non sono mai banali. Ecco quindi il suo nuovo lavoro, Una storia senza nome, presentato fuori concorso a Venezia. Una storia, prima ancora che senza nome, decisamente curiosa perché prende le mosse da un mistero autentico. Bisogna risalire al 1969 quando dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo sparisce La natività, l’enorme dipinto di Caravaggio. Da allora mai più ritrovato, nessuno sa se davvero esista ancora, anche se periodicamente affiorano notizie interessate da parte di mafiosi più o meno pentiti.

Su quella vicenda, storica, Andò ne innesta un’altra: uno sceneggiatore cialtrone e sciupafemmine in perenne crisi creativa che, grazie a un ghost writer rispolvera con informazioni di prima mano la vicenda del capolavoro scomparso, scatenando reazioni contrastanti e scomposte. Una storia che non avrà nome, ma ha un sacco di svolte, determinate però da uno scorrimento farraginoso sulla base di troppi dialoghi ascoltati per caso dai protagonisti. Così si rimane un po’ perplessi nonostante un cast importante, il Disperato erotico stomp di Dalla, la riflessione su cosa sia il vero e cosa il falso. Forse una storia del genere per funzionare davvero avrebbe avuto bisogno del miglior Orson Welles.