Se nel precedente libro di Tommaso Avati (recensito su il manifesto del 4 giugno 2022) le protagoniste erano tre donne sorde, anche in questo nuovo romanzo, intitolato La ballata delle anime inutili (Neri Pozza, pp. 144, euro 17) il personaggio che emerge, che sembra tenere in mano i fili della narrazione e incarnare l’anima della storia è una diversa, una giovane donna di tredici anni. Vermitura, la chiama il padre che nel suo dialetto d’origine, il calabrese, vuol dire chiocciola, perché è lenta. E poi è donna, dunque inutile, perché non serve a niente e non sa fare niente, mica come gli altri quattro fratelli più grandi. Vittorio Logreco, vedovo, fascista convinto, ha scelto per loro le mogli che ogni volta hanno portato alla famiglia un bene in dote, campi, animali. Vivono tutti insieme nel Gargano, in una masseria con cinque stanze da letto, con il nonno Saverio e i vari figli. E tutta la casa ruota intorno a una stanza centrale, la stanza del Santo, una sorta di sancta sanctorum, dove si va solo per fare figli.

LA STORIA INIZIA nel momento in cui Angiolino, il figlio anulare – ovvero il quarto – sta per sposare Caterina. Siamo nel 1938 e la narrazione giunge fino al dopoguerra. Tanti sono gli avvenimenti che si succedono: ci saranno morti e persone credute morte che ritorneranno, ci sarà cattiveria e solidarietà, nella masseria dei Logreco si passerà dal più stretto regime patriarcale a una sorta di repubblica delle donne, nuovi incontri con nuovi personaggi imprimeranno svolte impreviste allo sviluppo degli eventi. Il tutto raccontato in una sorta di narrazione corale, in cui vari personaggi si alterneranno nel prendere la parola, proponendo al lettore la propria versione, in una sorta di atmosfera magica in cui qualsiasi cosa avviene all’ombra di una moira, di un destino. O, meglio, di più moire, al plurale, quelle potenze di cui parlava Giacomo Debenedetti in uno splendido saggio su Verga che, incarnate nel potente, danno un senso di ineluttabilità invincibile al fato di sottomissione dei contadini meridionali.

IN QUESTO CASO, però, i fati non esprimono soltanto sottomissione e accettazione di un destino avverso, ma, anzi, si aprono alla possibilità di cambiamenti radicali. Il libro, poi, è stratificato e prevede più possibilità di interpretazione. A livello dei personaggi, innanzi tutto, dove emerge con forza la figura di Vermitura, appunto, che soffre anche di una sorta di discalculia: non sa contare, non sa usare i numeri che la confondono.

DIVERSO È ANCHE il suo amico, Pasquale, che fa parte della comunità di San Nicandro che – fatto storicamente vero – guidata da Domenico Manduzio, si è convertita all’ebraismo e per le loro pratiche (non mangiare maiale, circoncidersi, non lavorare il sabato) sono guardati con sospetto, fino ad essere perseguitati. C’è poi la differenza che separa parole e numeri, questi ultimi sono stupidi, significano ognuno una cosa soltanto, non cambiano mai, le parole, invece… ognuna di loro può significare più cose, «possono sorridere, a volte possono mordere». E possono essere viste, o almeno Vermitura le vede. Si accumulano sulla testa di chi le dice, e «quando diventano troppe, quando hai una matassa troppo grande sul capo, allora è il momento di morire». Ed anche il concetto di inutilità, richiamato nel titolo, è attraversato da una differenza, radicale. Sei inutile perché sei donna, perché sei lenta, perché non sai fare niente. Ma innanzi tutto «la felicità è inutile. Arriva prima di ogni cosa, prima anche del pensiero, e mentre te ne accorgi e ti chiedi se davvero c’è, lei se ne è già andata. La felicità era correre da bambini sui campi coi pomodori nelle tasche e aver paura di essere beccati e poi finalmente fermarsi senza più fiato in gola e poter addentare il primo…».
Infine, c’è un’altra differenza che riguarda la protagonista: la chiamano Vermitura, ma il suo vero nome è Sofia, la saggezza.