In coincidenza con la morte del regista Carlo Lizzani è uscito un libro di Hans Küng in cui il noto teologo svizzero dice di essere favorevole all’eutanasia. Küng, che preferisce una morte improvvisa, se fosse costretto a morire volontariamente sceglierebbe di farlo nella sua casa circondato da amici e colleghi. Affetto dal morbo di Parkinson, che sta compromettendo la sua capacità di studiare e di scrivere, Küng rivendica il diritto di vivere la propria vita con dignità e si rifiuta di accettare sofferenze intollerabili e di considerarle come qualcosa mandato da Dio.

Determinare la propria morte è per lui restituire la vita nelle mani del Creatore che gliel’ha donata. Pensa evidentemente che Dio nel donare la vita non chiede in cambio la rinuncia alla propria dignità che annullerebbe il significato stesso di «dono». Si può vedere nella posizione di Küng non un rifiuto del dono ma l’intento di una sua piena valorizzazione. La vita senza dignità è degrado.

Lizzani, diversamente da Küng (e da Seneca), ha optato per un gesto solitario che offre allo sguardo di un pubblico ormai estraneo (in cui si mescolano indifferentemente persone care e passanti ignoti) solo lo spettacolo impersonale della morte. «Stacco la chiave», ha scritto in un biglietto destinato ai suoi familiari: se staccare la spina della propria vita è l’ultimo atto di una personale affermazione è il rimettere la chiave della propria esistenza in tasca nel momento del congedo che rende quest’affermazione irrevocabile, definitiva. La vita è una cosa personale, ciò che il singolo soggetto è, e assume valore quando si è capaci di donarla agli altri e a se stessi. Pur divergendo da Küng, Lizzani si avvicina a lui in un punto importante: l’atto di fede -all’uomo, a un ideale, a Dio- è un atto di libertà che non ammette costrizioni. L’eutanasia, il nobile morire, è un atto di fede alla dignità della vita che non deve essere intaccata dalla morte. Conosciamo la morte in modo indiretto, attraverso quella degli altri. Nonostante la sua aura maligna è un fenomeno naturale che si può studiare (come un albero sradicato dal vento o il letto di un fiume prosciugato dal caldo). Il dolore che proviamo viene dal vuoto che l’assenza del morto apre nel nostro mondo interno. Il lutto forma in gran parte la nostra indiretta esperienza della morte e forgia la paura nei suoi confronti: perdere coloro che amiamo o essere perduti per loro nel momento in cui ci toccherà morire è la sofferenza che dobbiamo elaborare durante tutta la nostra vita. Tuttavia per quanto concepiamo la morte essenzialmente attraverso un processo psichico che elabora le sue conseguenze (nel passato, nel presente e nell’avvenire), la sua esperienza diventa più diretta quando siamo sopraffatti dall’impossibilità di dare senso al nostro desiderio. Si rischia di morire psichicamente mentre si è vivi fisicamente, di vivere come spettri. «Non voglio vivere come l’ombra di me stesso», scrive Küng. Ospitare la morte dentro di sé è mancanza di dignità, di rispetto per sé e per gli altri. Donald Winnicott, grande erede di Freud, disse una volta: «Dio mio fa che sia vivo quando muoio».

Tenere le persone artificialmente, miseramente in vita contro la loro libertà è un atto di umana viltà, non di compassione. Il cadavere vivente che si sceglie di accudire è un oggetto consolatorio, metafora di una resurrezione possibile che contraddice, antagonizza il lutto e evita la fatica del lavoro richiesto. Nessuna autorità può costringere un essere umano di diventare la reliquia di qualcuno, sia pure delle persone amate.