La redazione consiglia:
Dai bassorilievi ai costumi, l’egittologia di VerdiNon è facile portare in scena I Vespri siciliani di Giuseppe Verdi, una delle sue opere più lunghe in termini di durata complessiva e allo stesso tempo modulate su melodie sempre piuttosto brevi, spesso asimmetriche e sincopate, assediate dalla cosiddetta «figura della morte», appena tre note ripetute ossessivamente. Insomma poca espansione lirica e molta austerità, a contrassegnare una stagione di passaggio nella vita del compositore, in cerca di un nuovo linguaggio, con alle spalle Traviata e Trovatore e a venire, tra le altre, Simon Boccanegra e Don Carlos: la commissione dell’Opéra di Parigi, la seconda delle tre che Verdi accettò nel corso degli anni (dopo Jerusalem e prima, appunto, di Don Carlos), e il cimento col genere forestiero del grand opéra, lontano dalle sue abitudini compositive, lo spingono a esplorare altri lidi. Il problema non è solo la poca cantabilità, o meglio una cantabilità imbrigliata e messa in secondo piano, ma anche la necessità di un cast con quattro solisti d’eccezione, chiamati a sostenere ruoli con tessiture impervie, a tratti proibitive. Ecco spiegato come mai al Teatro alla Scala di Milano l’ultimo allestimento dei Vespri risale a 24 anni fa, a quel 1989 in cui aprì la stagione con la direzione di Riccardo Muti e la regia di Pier Luigi Pizzi.

IN QUESTI GIORNI si sono arrischiati a riesumare il titolone il direttore Fabio Luisi e il regista Hugo De Ana, che crea anche costumi e scene. Luisi, applauditissimo alla prima, dirige cercando di chiaroscurare il più possibile la partitura, sia attraverso le dinamiche che attraverso i ritmi, e di cavarne i sinfonismi più accesi, col risultato talvolta di sopraffare le voci. De Ana, fischiatissimo, si prende la responsabilità di decontestualizzare la vicenda dal Duecento siciliano, risparmiandoci un esotismo medievale che, se aveva senso in forma di vittorughiano «colore locale» in pieno Ottocento romantico sulle scene o sulle tele (si pensi ai tre quadri di Francesco Hayez che condividono il titolo dell’opera), oggi sarebbe grottesco. Dipingendo i Francesi come generici invasori (tedeschi, russi?) e i Siciliani come generici oppressi, De Ana avvicina la vicenda al pubblico. Peccato per la carenza di regia in certi punti cruciali (gli scontri, le sommosse) e per i continui passaggi in scena del cavaliere e della morte che giocano a scacchi, presi di peso dal Settimo sigillo di Bergman e buttati lì con un didascalismo tragicomico. La direzione cerca di chiaroscurare il più possibile la partitura

IL CAST è all’altezza dell’opera. Simon Lim ci regala un Procida tenebroso e statuario. Piero Pretti si disimpegna nel ruolo acutissimo di Arrigo con baldanza e restituendo un personaggio entusiasta e lacerato nella scelta tra l’affetto filiale e lo spirito patriottico. Marina Rebeka ci mette un po’ a carburare e, dal secondo atto in poi, se è a suo agio nella parte acuta del ruolo di Elena, lo è meno in quella centrale e in quella grave: qualche nostalgico della Callas se ne accorge e bua, mentre la quasi totalità del pubblico prova a difendere il soprano a suon di «brava». Anche lei sconta, come gli altri, una certa inerzia scenica, attribuibile con ogni probabilità al fatto che De Ana da sempre è più sensibile alla costruzione delle scene che non al lavoro sugli attori. Su tutti svetta Luca Micheletti, che sfoggia una tecnica vocale e una presenza scenica superbe, scolpendo un Monforte inteso e sfumato, quasi un Filippo II in sedicesimo: inappuntabile in acuto, brunito nel registro grave, a tratti irruento, a tratti dolente, contraddittorio come un essere umano colto nel flusso inarrestabile della vita.