L’incontro con Venezia genera nei più gli stereotipi che tanto irritano gli indigeni. «Venezia è bellissima, ma io non ci abiterei mai!»: ecco esibita un’ammirazione finta, che esprime un rigetto infastidito. Per sfuggire a questa superficialità si deve cercare di capire. Per farlo serve sedersi in un campo (la «piazzètta» dei non addetti). Ascoltare la città, seguire i suoi tempi, lunghi e esigenti, adattarsi alla sua natura, gelosa e non adeguata al ritmo odierno. E farsi raccontare, da chi le vive, persistenze e trasformazioni umane e urbane. Questo è l’atteggiamento, attento ma non pedante, con cui Francesco Erbani ha scritto Non è triste Venezia Pietre, acque, persone (Manni, pp. 229, € 15,00). Il titolo annuncia il rifiuto degli stereotipi (non ne voglia Aznavour); chiarisce gli oggetti di indagine: ossia le case, la laguna, la presenza dei turisti, e il punto di vista di chi vive in città, o vive la città. Un sottotitolo definisce poi il taglio (reportage narrativo) e l’auspicio (una città che deve ricominciare).
Venezia è infatti alla fine di una crisi, causata dal rapporto molto controverso con la contemporaneità: per Ruskin il centro era stato snaturato dalla costruzione del ponte ferroviario già nel 1846. Da allora molto è accaduto, anche se tutto è vigilato da una tutela rigorosa a parole: e ci si è illusi che ogni cambiamento indesiderato fosse impossibile. Oggi è multato chi installa una finestra in pvc, ma altri ottengono permessi per sventrare il Fontego dei Tedeschi (pardon: per attuare un recupero che valorizza l’edificio storico). E intanto dal 1960 muta continuamente il tessuto umano, sociale, economico. In silenzio, come se i fenomeni «accadessero» da sé, non per scelte politiche. La città ha perso funzioni (non sostituite) e residenti. Ha subito una rapida metamorfosi in «parco a tema» (e qualche turista arguto chiede: «a che ora chiude Venezia?»). Ma Erbani svela francamente l’arcanum: questa fine non è colpa del destino, né di complotti o crisi globali, bensì l’esito di precisi atti amministrativi, con data e firma, che hanno reso economicamente profittevole a Venezia la monocultura turistica. La politica ha per altro incoraggiato precisamente quanto il «popolo» voleva (e vuole): molti, maledetti e subito (i schèi, s’intende). I ciclici proclami circa la necessità di «ridurre il numero di turisti» sono finti: nessuno, avendo per mano la gallina che fa uova d’oro, vuole che se ne riduca la produzione. Il sistema premia, se non tutti, di certo molti, dal miliardario immobiliarista fino al venditore di paccottiglia o di cibo immondo.
Ne profitta con diverso profitto un indotto esteso. Si piange che non ci siano più i viaggiatori ricchi del Des Bains. In effetti non ci sono nemmeno le carrozze, e invece c’è Airbnb, c’è Googlemap, e nulla è più come prima. Si è puntato sui grandi numeri, e tutti sanno che il prodotto sul lungo periodo sarà gravemente logorato. Ma il popolo conosce Keynes, e sa che cosa ci attende, tutti, «sul lungo periodo». Erbani spiega come funziona in concreto una giornata a Venezia, quali sconquassi e reazioni comporti la valanga di turisti, presenti ovunque e sempre. A protestare contro lo sfruttamento resta qualche «intellettuale» (una brutta parola!), qualche madamìn (a Venezia, siorèta): Erbani dà loro voce, pacatamente. Non è protesta temibile. L’economia ha già portato il sistema al perfetto sviluppo. Vivere a Venezia costa assai, lavorarci è complicato: ciò spinge naturalmente i più a trasferirsi altrove per mettere a reddito immobili e spazi. Sempre meno persone abitano stabilmente la città. Un’esperienza antropica va perduta irreversibilmente, sostituita da tipi vari di «users» che soggiornano per ore, o giorni, o mesi, e vivono Venezia in qualche modo: ma una città senza veri abitanti non è più tale.
Erbani delinea possibili scelte in controtendenza. Alcuni aspetti antimoderni, osserva, come la mancanza di auto o un «democratico» trasporto pubblico, sono molto sostenibili, e potranno essere presto un modello. In attesa però che si scopra quanto è piacevole (e lo è: experto credite) vivere nella «lentezza» lagunare, ai più pesa d’impiegare più tempo per andare dal terminal delle auto a una meta in Venezia, di quanto ne occorre per raggiungere in auto un’altra regione. Bello immaginare professionisti o artigiani al lavoro all’Arsenale, ma intanto studi e laboratori chiudono, e aprono semmai altrove, in terraferma.
Pensare utilizzi diversi e sostenibili per la città è utile, ma spesso astratto. Per modificare l’agire delle persone serve denaro. Dopo che per molti anni la salvaguardia di Venezia ha attirato investimenti esteri e nazionali cospicui, ora ogni risorsa statale è dirottata sul MO.S.E. (Modulo Sperimentale Elettromeccanico). A parte gli scandali, politica affari e ideologie ne hanno fatto terreno di scontro. Il polverone nasconde la realtà: credere o dubitare del MO.S.E. è un atto di fede; sapere se e come funzionerà, e a che pezzo, è impossibile. Impensierisce la salute della laguna, un sistema creato dall’artificio umano retto su un equilibrio delicato di terra e acqua, dolce e salata. Oggi, sviluppo del porto merci e passeggeri, manutenzione della laguna e difesa dalle maree sembrano incompatibili. La vicenda delle «grandi navi» è l’elemento più vistoso di un conflitto superabile solo con un compromesso. Pochi lo perseguono, giacché chi lotta e chi ha potere abbisogna anzitutto di «visibilità». La città di oggi può fare a meno della dose massiccia di turisti ciabattoni? Se sì, in cambio di che cosa? Il ragionare informato di Erbani induce un salutare e benvenuto spazio di riflessione.