Leggo La tragedia spagnola di Thomas Kid (1592) e Arden da Feversham (opera anonima, anch’essa registrata nel 1592, da alcuni attribuita al giovane Shakespeare). Resto afferrato, in entrambi i casi, dalla struttura dell’impianto drammatico che, una volta avviata, giunge al suo termine senza un momento di sosta, irreparabile.

Dico di una composizione teatrale che fa un tutt’uno dello svolgimento della storia e della configurazione della interiorità dei personaggi. Kid e l’anonimo non mettono in scena un ‘tipo’, ovvero da un ‘carattere’. Partono dal sentimento della vendetta che innesca la ‘vicenda’, vivo e in azione, rappresentato nel crescere della sua dinamica. È nella stretta connessione tra sentimento e avvenimento che si forma e prende la sua configurazione il personaggio.

Tale congiunzione plasma il personaggio in intreccio e l’intreccio in personaggio, il palinsesto affidabile al quale riferire ogni rielaborato ulteriore spunto, ogni accrescimento di tecnica e di assunto che il corpus teatrale elisabettiano conseguirà, se non sbaglio l’ordine delle date, nell’arco di poco meno d’un cinquantennio a partire dagli anni Ottanta del Cinquecento, per giungere a ’Tis Pity She’s a Whore di John Ford, che è del terzo decennio del 1600.

Il susseguirsi inarrestabile delle ‘azioni’ sulla scena, l’inesorabile loro compiersi in ‘uccisione’, tale l’esito che deliberatamente ottiene ogni atto concepito ed agito nella Spanish e nell’Arden, è improntato, appunto, al tema della vendetta. Nella tragedia di Kid il personaggio de La Vendetta, significativamente, siede a bordo scena accanto al fantasma di Andrew, colui che va vendicato.

Dunque una prima riflessione a chiarimento della tragedia come forma d’arte va dedicata a quella peculiare combinazione di sentimento e di calcolo che anima e contrassegna la ‘figura’ (il personaggio) di chi persegue la vendetta e la concepisce come il compito assoluto da realizzare, se necessario, a costo della propria vita. Mettere a fuoco la teorica della vendetta per intendere la tragedia elisabettiana è senz’altro è un buon volano. Una considerazione, credo, che forse vale (con le dovute sottolineature e differenze tra Atene e Roma) anche per il teatro antico che nella recezione cinquecentesca, si sa, non solo in Inghilterra, si riassume nel nome di Seneca.

È che lo spirito di vendetta fa della vita, degli impulsi vitali, delle passioni, un determinato cospirare alla morte per convergenti ed indomabili motivi, capaci di unire nobiltà e miseria, fedeltà e tradimento, calcolo e dissimulazione, egoismo e sacrificio. E la vendetta è conforto perché conferisce ad ogni atto che ad essa corrisponde una affermazione di potere assoluto in chi la persegue, potere esercitato fuori di ogni ‘convenienza’ e ‘convenzione’, quando l’amor proprio si esalta come affermazione e distruzione di sé, (come un plesso di passioni da vivere perinde ac cadaver) e annientamento degli altri ridotti a meri ‘referenti emotivi’ delle mie reazioni sentimentali fino a scatenarle.

Vendetta come preparazione d’una morte da perseguire e, al contempo, come riflessione sulla morte, a designare l’arco amplissimo che affatica l’intelligenza e i sentimenti quando si declina nei modi della religione, della liturgia, della poesia. Qui la riflessione sulla morte è la riflessione su un morto ossia la morte di una determinata persona. E infatti l’identità incancellabile del morto si rapprende nel fantasma e resta in scena.

La vendetta trova un fondamento della sua legittimità nel non accettare la morte come il destino che attende tutti gli uomini e li eguaglia. La vendetta opera la morte. La morte è recata in virtù di dispositivi attentamente calcolati da chi è disposto a pagare con la morte il suo atto. Sicché la vendetta mostra una catena di morti l’uno all’altro congiunti e allude alla immedicabile e permanente presenza della violenza omicida sulla terra.

Il mondo è un susseguirsi inesauribile ed inesausto di uccisioni. L’uccidere sta nel potere. Per questo la meditazione sulla vendetta assume un ordine eminentemente politico (pollitick), come insegna Mario Praz ragionando sul retaggio di Machiavelli dentro il teatro elisabettiano.