L’imminente uscita dell’ultimo libro di Mario Vegetti, dal titolo Il potere della verità Saggi platonici (Carocci «Frecce», pp. 284, € 24,00), revisionato in bozze dall’autore poche settimane prima della scomparsa avvenuta l’11 marzo scorso, rappresenta un’eccellente occasione per stilare un profilo, per forza di cose parziale, di uno studioso che ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale per intere generazioni di antichisti, ma che ha esercitato un’influenza significativa anche nel dibattito culturale della sinistra italiana (tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta fu vicino sul piano intellettuale e politico al gruppo del manifesto e alla sinistra radicale fu sempre legato, come testimonia anche la direzione della rivista «Marxismo oggi»).
Vegetti, che era nato a Milano nel 1937, insegnò per quasi quattro decenni Storia della filosofia antica all’Università di Pavia, dove aveva studiato, in qualità di alunno del prestigioso Collegio Ghislieri, nella seconda metà degli anni cinquanta. Fin dai suoi primi lavori seppe innovare in maniera incisiva il panorama degli studi sul pensiero antico, includendovi ambiti e testi fino ad allora collocati ai margini. Basti pensare che a lui si deve, nel lontano 1964, la traduzione degli scritti del Corpus Hippocraticum, un insieme di testi di argomento medico che contengono importantissime riflessioni di ordine epistemologico. Nel corso degli anni Vegetti si è imposto come uno dei massimi specialisti internazionali di storia della medicina antica; alla pubblicazione delle opere ippocratiche ha fatto seguito, nel 1978, un volume che raccoglie i principali scritti di Galeno, l’altro grande medico dell’antichità. Le indagini di Vegetti sui testi medici antichi, che trovarono un significativo momento di sintesi nello splendido Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne all’origine della razionalità scientifica (Il Saggiatore, 1979), inaugurarono una stagione di studi vivacissima, che ancora oggi a distanza di tanti anni costituisce uno dei settori più interessanti e innovativi della ricerca sul pensiero antico. Vegetti ha ricostruito i metodi e le forme di conoscenza che hanno segnato l’origine di una nuova forma di razionalità, un pensiero di tipo congetturale e semeiotico, che si è progressivamente affrancato dal modello sapienziale e semi-religioso praticato dalla cultura tradizionale.
L’apporto di Vegetti all’innovazione degli studi sul pensiero antico non si è limitato alla medicina. A lui e al suo collega «pavese» Diego Lanza, amico di una vita, si deve la traduzione delle opere biologiche di Aristotele, fino ad allora trascurate dagli studiosi. La «scoperta» di questi scritti ha permesso di allargare notevolmente la nostra conoscenza del pensiero di Aristotele, consentendo di superare le ristrettezze di un approccio scolastico e banalizzante. Ad Aristotele Vegetti ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, scritto in collaborazione con Francesco Ademollo, Incontro con Aristotele (Einaudi, 2016), un’opera nella quale la profondità del pensiero del grande filosofo antico viene valorizzata in tutte le sue componenti.
Il sodalizio con Diego Lanza
Al sodalizio con Diego Lanza si deve anche un’innovativa stagione di studi, dedicati ai meccanismi economici, sociali, istituzionali, politici e ideologici che agiscono alle spalle della costruzione della democrazia ateniese del V secolo. Il libro L’ideologia della città (Liguori, 1977) si serve dei raffinati strumenti analitici forniti dall’antropologia e dal neo-marxismo di quegli anni per indagare le dinamiche intorno alle quali si viene a costituire appunto l’ideologia di Atene (sempre nel 1977 esce per Feltrinelli anche il volume, curato da Vegetti, Marxismo e società antica, dedicato alla questione dell’applicabilità di categorie marxiane, come classe, mercato, sfruttamento, ideologia ecc., al mondo antico).
La democrazia ateniese nasce attraverso un complesso sistema di inclusioni ed esclusioni, che mette ai margini i poveri, gli schiavi, le donne e gli stranieri. Ma la città si dota anche di formidabili strumenti di autorappresentazione, che ne cementano l’identità (basti pensare al teatro, prima tragico e poi anche comico). Non c’è però dubbio che lo strumento più forte per mezzo del quale viene costruita l’ideologia della città sia l’uguaglianza politica, la celebre isonomia, la quale assegna pari dignità a ciascun cittadino, celando la profonda diseguaglianza nella distribuzione della proprietà e delle ricchezze. Lanza e Vegetti scrivevano che «gratificante e consolatoria, l’ideologia assicura ciascuno della propria identità», facendo sì che l’individuo si senta parte di una comunità omogenea. Sulla funzione mediatrice e unificante del nomos, ossia della legge, Vegetti è tornato numerose volte nel corso degli anni, soffermandosi sulle voci critiche provenienti da coloro che misero in luce il carattere illusorio (si direbbe «ideologico») di questa pretesa. La più radicale di queste voci è senz’altro quella del sofista Trasimaco, il quale viene descritto da Platone nell’atto di sferrare un attacco formidabile alla pretesa di neutralità e universalità della legge e dei sistemi normativi che regolano la vita della città: la giustizia, proclama con forza Trasimaco, non è altro che «l’utile del più forte».
I sistemi normativi nei quali la giustizia si sostanzia smarriscono ogni ambizione «oggettiva», diventando l’espressione di rapporti di forza che si collocano alle loro spalle: chi ha la forza – si tratti dei più ricchi o della maggioranza – impone il rispetto di leggi il cui unico obiettivo è quello di perpetuare questo potere. Vegetti, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per la radicalità e la potenza teorica di una simile tesi, è arrivato ad attribuire a Trasimaco la formulazione di un vero e proprio «teorema del potere», ormai indifferente alla natura «costituzionale» del governo: si tratti di un regime monarchico, aristocratico oppure democratico, il suo assetto legislativo dipende unicamente dalla forza, la quale finisce per rappresentare, contro ogni pretesa di universalità e neutralità, l’unica autentica fonte della legge e dunque della giustizia.
Fine dell’età dell’innocenza
Lo smascheramento della natura della legge e delle norme di giustizia operato dal Trasimaco platonico rappresenta per Vegetti tanto la fine dell’«età dell’innocenza» della città, quanto il punto di partenza per il grandioso progetto di rifondazione antropologica e politica messo in campo da Platone. A questi temi Vegetti dedicò sia la monumentale edizione commentata della Repubblica (uscita in 7 volumi per Bibliopolis, 1998-2007), sia numerosi altri contributi, tra i quali lo splendido Un paradigma in cielo (Carocci, 2009) e il recentissimo Chi comanda nella città. I Greci e il potere (Carocci, 2017). Il senso della lettura che Vegetti propone del progetto politico platonico è chiaro, sorretto da una straordinaria conoscenza dei testi e da una solida competenza filologica, ma soprattutto animato da una inequivoca «scelta di campo». Polemizzando tanto con le interpretazioni «liberali» quanto con quelle schiettamente «conservatrici», entrambe volte a depotenziare il messaggio «politico» contenuto nella Repubblica, concepito o come un documento di morale individuale oppure come un gioco letterario, Vegetti ha coraggiosamente affermato l’«inattualità» di Platone sia rispetto alla cultura individualistica e proprietaria della modernità, sia rispetto alla presunta unità «cristiana» dell’occidente: Platone non fu né liberale, né cristiano, fu anzi convinto che i provvedimenti intorno ai quali dovrebbe sostanziarsi la «città bella» (kallipolis), ossia a) l’uguaglianza dei generi rispetto ai compiti di governo, b) la soppressione della famiglia e della proprietà, cioè l’abolizione della componente privata sia sul piano patrimoniale sia sul piano affettivo, e c) il governo dei filosofi, non risultano solo desiderabili, ma anche, in qualche misura, «possibili», ossia realizzabili. La città perfetta immaginata da Platone non rappresenta dunque un «castello in aria», un’utopia letteraria priva di significato politico, ma, come Vegetti ha sostenuto numerose volte, un’utopia progettuale, vale a dire un modello normativo che svolge la funzione di paradeigma dei comportamenti pubblici e privati degli individui. L’ultimo libro di Vegetti, al quale si faceva riferimento in apertura, tratta con la consueta limpidezza molti dei temi ora richiamati.
In un divertissement pubblicato in una collana di «falsi d’autore» (Platone, Repubblica, libro XI, Guida, 2004), Vegetti immagina che nel 1937 in un convento dell’Armenia uno studioso sovietico dal non casuale nome di Josiph Vissarionovich annunciò il ritrovamento di un manoscritto contenente il libro XI della Repubblica di Platone. Il protagonista di questo libro, colui che intende superare le tesi di Trasimaco e di Socrate, è «uno straniero piuttosto tozzo e tarchiato, con una gran testa, un’incolta barba grigia e lo sguardo penetrante, cui faceva da seguito una piccola folla di manovali o di schiavi da poco liberati dalle loro catene». Questo Marx che dialoga con Socrate, delineando i contorni di una società senza sfruttati né sfruttatori, senza ricchi né poveri, rappresenta l’estrema concessione – ironica e divertente, – di Vegetti alla passione politica, alla sua fiducia in un comunismo aperto e libertario, tanto «inattuale» quanto ineludibile, almeno per una riflessione che non si accontenti di registrare passivamente il presente, ma si proponga di immaginare criticamente il futuro.