La mosrtra La biblioteca di Dante, allestita a Palazzo Corsini, è eccellente, e ha, tra i vari meriti, quello di aver risolto nella forma di un discorso suggestivo e coinvolgente, un soggetto – i libri consultati da Dante – che avrebbe potuto prestarsi a una trattazione fin troppo asettica e distaccata, con una nuda teoria di bacheche, schierate alle pareti l’una di seguito all’altra, come un corpo di guardia al passaggio di un’autorità. Si è voluto invece concentrare nella penombra l’attenzione del visitatore, cingerlo dei pannelli, in un percorso compatto che culmina nell’ultima sala dove, accolte in una luce cangevole come d’acquario, si trovano, dedicate a vari personaggi dell’universo dantesco, alcune creazioni visuali di tipo elettronico, per la cui produzione l’Accademia dei Lincei è affiancata dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale (ICPI).
È a tutti evidente come dallo svolgere visivamente questi temi al cadere nel didascalismo non vi fosse che un passo; ci si deve, perciò, rallegrare che i curatori, Roberto Andreotti e Federico De Melis, abbiano evitato queste sirti. D’altra parte, l’iconografia dantesca è così vasta che l’immaginario di ognuno ne tracima. Di alcuni passaggi meno frequentati dalle letture scolastiche, anzi, è probabile che, rispetto ad altri classici come Il Decamerone o come I Promessi sposi, la memoria visiva superi nel largo pubblico quella puramente verbale dei versi danteschi.
Occorreva, perciò, che questo materiale venisse depurato, per non incorrere negli accostamenti più obbligati. Di qui la decisione degli autori di scegliere, attraverso il montaggio digitale (realizzato insieme a Francesco De Melis, che firma anche la sofisticata colonna sonora), un taglio interpretativo contrassegnato per ciascuno degli episodi: di Ugolino, p.e., s’è voluto mettere in risalto la solitudine desolata, la genitorialità pietrificata e dolente, come quella d’una Niobe; di Ulisse «il sentimento oceanico», il tremore e la vertigine per quel che non ha termine né confine; in Giustiniano, l’idea stessa dell’Impero, in una trascendenza decantata nei simboli regali e nell’oro, il più lieve e il più sottile dei metalli, e, per gli alchimisti, il più nobile.
Quel che più si nota è la forza che hanno le immagini di concatenarsi in idee, la capacità, una volta sciolte dalla loro dimensione illustrativa che le rende, entro certi termini, indifferenziate, di costruire in un discorso musicale e visivo sul testo, un’interpretazione, una lettura possibile. Questa loro rinnovata freschezza è esaltata dalle scatole ottiche, gli holobox (realizzati dallo staff di Luca Ruzza), nei quali i video sono inseriti: che ricordano le macchine usate per le fiere ambulanti nell’epoca aurorale della settima arte, quando il cinema era (e continuò a essere per registi come Georges Méliès) féerie. Una specie di ritorno a una visione pristina, non incrostata dall’ovvio; forse, anche per questo, uno stimolo alla concentrazione. Fuori dalla serie dei personaggi, uno degli holobox è peraltro interamente dedicato alla Divina Commedia incisa da Bartolomeo Pinelli, messa a disposizione dall’ICPI che ne è proprietario.

Quest’ultima sala si lega molto bene al tutto, alla raffinatezza dell’allestimento, alle luci basse, ambrate e calde, che fanno più tenui e profondi gli ori delle miniature e risaltano la materia delle pergamene, perché, come avviene introducendo la testa nelle scatole ottiche, si partecipi, invece di soltanto intellettualmente comprendere, dell’universo dantesco.