I’m Thinking of Ending Things come un’eco che ricorda i versi di Wordsworth, come il ritornello di una canzonetta o un pensiero martellante che attraversa le emozioni della paura, di un tempo sospeso, di una storia d’amore. Se lo ripete così, alla «prima persona» nella sua testa Lucy (Jessie Buckley) mentre viaggia in macchina col suo ragazzo, Jake (Jesse Plemons), verso la casa della famiglia di lui. Studenti universitari i due stanno insieme da poco, i genitori di Jake, Suzie e Dean (Toni Collette e David Thewlis) abitano in una fattoria isolata, sembrano stravaganti, i ragazzi arrivano, cenano e ripartono sotto la neve fermandosi un po’ qua e un po’ là nella notte, in una gelateria

nel mezzo del nulla, nella scuola dove Jake andava da bambino. E intanto Lucy diventa Louisa, Amy, Ames, le stanze della casa appaiono straniate, l’horror si cela dietro ogni porta, il tempo si sospende e quella che all’inizio si dichiara come una pratica narrativa «riconoscibile», la voce fuori campo che anticipa la storia, inizia a perdersi anch’essa tra le pareti, in un racconto composto da frammenti mai lineare, che entra nell’inconscio americano più grigio lasciando un’unica certezza: quel motivo detto infinite volte, I’m Thinking of Ending Things.

NELLA VERSIONE italiana tradotto come Sto pensando di finirla qui, I’m Thinking of Ending Things è il nuovo film di Charlie Kaufman – lanciato da Netflix qualche settimana fa «rigorosamente» solo sulla piattaforma, niente sala per carità, e può sembrare strano trovarlo qui ma è un bellissimo film – in cui il regista e sceneggiatore newyorchese torna alle scommesse (emozionali) dei suoi film precedenti – da Essere John Malkovich, 1999 a Eternal Sunshine of the Spotless Mind- Se mi lasci ti cancello (2004), Synecdoche, New York (2008), Anomalisa (2015), «entrare» cioè con la macchina da presa nel cervello, nell’io – il proprio, quello dei personaggi o di un «universale» che vi si rispecchia. Le vite vissute e quelle «potenziali», la memoria dell’istante e i suoi rimpianti, il flusso dei pensieri, dei dubbi, delle parole, degli atti mancati. L’amore, forse. E quale, quello che è o quello che è stato?

I DUE PROTAGONISTI possono rappresentarsi in modi differenti, poetessa, pittrice, critica lei, biologo, ingegnere lui. E chi si proietta nei ricordi, nel vecchio uomo che appare all’improvviso, l’anziano bidello della scuola che sembra spiarli pure se non li conosce?. «Non puoi fingere un pensiero»si dice a un certo punto. In quel paesaggio nevoso le frasi mute chiuse nella testa di lei lui sembra sentirle lo stesso.

Lucy dall’inizio dubita della loro relazione, del viaggio, si sente in trappola, soffocata, un po’ come noi (spettatori). È un sogno il suo o un incubo? E se «la maggior parte delle persone sono altre persone» chi sono allora genitori di Jake e lui stesso? Poco importa in fondo proprio come non serve riconoscere le molte «citazioni« letterarie e di immaginario che Kaufman dissemina nei suoi incastri, i libri e i dvd dei film che Jake (lo stesso Kaufman?) ha amato e che lo hanno formato, la discussione tra i due tornando su Una moglie di Cassavetes a partire dalla critica negativa di Pauline Kael sul «New Yorker».

Dietro al «gioco», che a molti appare persino irritante, c’è una terribile e serietà, lucida, nel modo di guardare i sentimenti nel tentativo di renderli visibili nel flusso della vita coi suoi rimpianti, i suoi detour, le continue e impercettibili sliding doors. E no, non si può fingere coi pensieri pure quando lo si fa smaccatamente, pure se ci si cela tra fughe e nascondini. Malinconico nei suoi eccessi, il film di Kaufman vive nel corpo a corpo che inscena tra la parola e l’immagine e dentro al fluire – delle esistenze con cui interroga il gesto del raccontare tra controllo – come sono tutte le sue opere – dunque messinscena e libertà imprevista dell’esistenza i cui diversi passaggi, le cose, le memorie assumono contorni inafferabili e il mondo viene inghiottito, assume nuove forme, si fa indistinto.

Dove è che siamo, a quale punto, a quale vita del pensiero? I piani di mescolano, le coscienze di confondono, l’illusione si fa dichiarata – non c’è trucco, è questo che fa il narratore, è qui che diffonde l’inquietudine. Intanto tutto è già finito, o ricomincia da qualche altra parte. E i generi si sovrappongono come le esistenze e gli amori vissuti o forse mai esistiti. Finiti lì.