Il bilancio dell’edizione 2015, la numero 68, parla di un aumento del pubblico sulla Piazza Grande rispetto allo scorso anno – complice la calda estate senza nuvole – di una picola flessione di quello in sala, di una crescita delle presenze Industry (il mercato cinematografico) e di una diminuizione invece della stampa. La paura del franco svizzero «libero» – pari all’euro con prezzi più che inaccessibili – che inquietava anche gli organizzatori non ha dunque scoraggiato i festivalieri, quelli abituali e le new entry, il Festival di Locarno, direzione Carlo Chatrian, si chiude nettamente in positivo e soprattutto conferma (forse rafforza) la sua immagine di festival di tendenza, provilegiato da nuovi autori e da maestri fuori formato. Non è cosa da poco oggi in una diffusa omologazione dei festival più grandi (produttivamente) essere uno dei luoghi «obbligati» per programmatori e professionisti del cinema indipendente che cercano e sperimentano declinazioni possibili degli immaginari. Un progetto che va al di là della qualità dei singoli film, ma che nel suo insieme si presenta bene accordato.

 
Ha vinto il Pardo d’oro Hong Sang-soo col suo magnifico Right Now, Wrong Then (premio anche al migliore attore, Jung Jae-Young), un riconoscimento importante per il regista sudcoreano tra i prediletti di grandi festival come Cannes, amatissimo dalla critica francese e quasi sconosciuto al pubblico italiano, d’essai nel suo Paese – come i personaggi dei suoi film – che non aveva mai vinto finora. Di Right Now, Wrong Then abbiamo parlato qualche giorno fa: l’idea è la stessa che ritorna in altri suoi film tutti magnifici: stessi motivi, materia, figure, forse più ispirati che altre volte, ma anche qui ogni situazione, ogni momento narrativo, ogni piano sequenza ci riporta all’essenza poetica della sua opera. Di fondo: ragazzo incontra ragazza, o meglio uomo incontra ragazza, può quest’ultima essere una studentessa o un’aspirante pittrice (la protagonista di Right Now, Wrong Then, l’irresistibile Kim Min-Hee che, come dice Hong lo ha ispirato moltissimo) e lui un professore di cinema, o un regista «autoriale» – l’aspetto autobiografico di cui si diceva, vederlo al mattino fare colazione fa pensare subito ai suoi personaggi, e così quell’aria svagata con cui si muove tra i cinefili che lo guardano come una star.

 
Lei è ingenua o forse no, lui bugiardo, quasi sempre sposato ma tende a nasconderlo, la vuole sedurre o è lei che lo seduce? Il luogo è una cittadina di provincia, si beve moltissimo, le parole diventano malintesi, cattiverie, gesti mancati. E poi si ricomincia solo che il movimento dei personaggi cambia, uguali passi ma diverso svolgersi del racconto, rimangono i luoghi, il tempio dove i due si incontrano, i caffé, le stradine, il sushi-bar, le bottiglie di soju ma si rovescia la relazione: lui non mente, lei non è delusa, un happy end malinconico invece dell’amarezza precedente.

 
Hong Sang-soo ha girato la prima parte, l’ha montata e l’ha mostrata ai suoi protagonisti prima di girare la seconda. Quando parla di cinema dice che oggi quello che non vede è la capacità di utilizzare cioò che si definisce un «cliché», i motivi ricorrenti delle storie: gli stessi possono contenere infinite variazioni, dire l’insostenibile fragilità dell’esistenza e delle combinazioni amorose con delicatezza nelle differenze e nelle ripetizioni.

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È il segreto di grandi registi indipendenti nella libertà delle loro intuizioni, non è questione di budget ma di irriverenza e di scelta. Ce lo hanno mostrato questi giorni i film di Iosseliani, Zulawski, Akerman, e l’ultimo film del concorso, giapponese, che in quasi sei ore, con l’epica del romanzo sentimentale nel quotidiano segue la rivoluzione di quattro donne, attrici sublimi premiate tutte insieme col Pardo dalla giuria presieduta da Udo Kier (sono Tanaka Sachie, Kikuchi Hazuki, Mihara Maiko, Kawamura Rira). Il titolo è Happy Hour, lo firma Hamaguchi Ryusuke. tutto comincia con un pic nic sbagliato sotto la pioggia e le amiche che si danno un nuovo appuntamento consultando l’agenda. Sono sposate, marito, figli e lavoro risucchiano la loro vita. Poi però accade qualcosa, una di loro confida di essersi separata, e questo sarà il pretesto anche per le altre di rompere le abitudini delle loro esistenze rivendicando una liberazione personale che è anche sociale e culturale.

 

 

Non è solo un film femminile anche se questa rivolta è narrata da vicino e con sensibilità rara dal punto di vista delle donne, e attraverso dettagli, gesti, postura, modo di occupare lo spazio che ne rivelano le costrizioni in una società dalle regole rigidamente nette. Le vite delle protagoniste parlano infatti anche degli uomini, disegnano cioè un modello di vita e di controllo a cui nessuno sfugge, e che per questo obbliga le persone a un continuo, e forse anche inconsapevole conflitto con sé stessi.

 

 

La scommessa a questo punto è: come liberarlo? In che modo respirare, tornare a un «desiderio» che non si può semplicemente reprimere?Tra suocere che vivono in casa e giudicano, figli che a quattordici anni mettono incinta la compagna di classe, mariti che scompaiono e non sono disposti a assumersi nessuna responsabilità se non annodarsi la cravatta per uscire,colleghi di lavoro ipocriti, e quel «scusatemi scusatemi» ripetuto come un mantra, le quattro donne sperimenteranno una possibile fuga. Tutta da inventare ma in cui scusarsi non è ammesso, anzi in cui si rivendicano le propie azioni.

 
Ryusuke procede lentamente, svela piccoli sussulti, conduce i suoi personaggi in questo romanzo di formazione e di scoperta senza eroismi. Si tratta della vita che si fa cinema nel suo scontro e nel suo fluire.