Definitivamente trasformato in un monumento a se stesso dal premio Nobel ricevuto nel 2010, un mese fa Mario Vargas Llosa ha aperto il VI Congreso Internacional de la Lengua Española, che quest’anno si è tenuto a Panama: un appuntamento istituzionale e tuttavia attraversato da polemiche a volte aspre sulle sorti di una lingua in continua evoluzione, ricca di varianti nazionali molto diverse per toni, accenti e vocabolario. Oltre a tenere un ovvio discorso di circostanza, lo scrittore peruviano ha presentato nella stessa sede il suo ultimo romanzo, L’eroe discreto, lanciato in settembre da Alfaguara e appena uscito anche in Italia presso Einaudi (pp. 392, euro 21,00), che ha in catalogo l’intera opera di Vargas Llosa. E forse non c’era sede più adatta di un congresso, dove el español de América fa la parte del leone, per presentare un testo in cui l’autore abbandona la lingua relativamente neutra degli ultimi anni per tornare a un’abbondanza di peruanismi che Federica Niola, cui si deve la bella e attenta traduzione, ha riunito in un glossario finale.
Al «ritorno» lessicale ne corrisponde un altro, quello a due luoghi chiave della narrativa e della vita di Vargas Llosa, ossia Piura e Lima, due città a lungo abbandonate per compiere una sorta di «giro del mondo» letterario che parte dalla Repubblica Dominicana della Festa del Caprone e approda all’Africa e all’Amazzonia dell’epico e anticolonialista Il sogno del Celta. A chiudere il cerchio ci sono poi le presenze di personaggi come il sergente Lituma – già apparso in Il caporale Lituma sulle Ande, in Chi ha ucciso Palomino Molero? e nel memorabile La casa verde – e come il raffinato ed europeizzante don Rigoberto con la moglie Lucrecia e il figlio Fonchito (protagonisti di Elogio della matrigna e I quaderni di don Rigoberto), che tornano per abitare una storia nuova accanto a nuove figure. In primo luogo quelle dei due «eroi discreti» che danno il titolo al romanzo: Felícito Yanaqué, piccolo ma fortunato imprenditore del ramo trasporti, e il ricchissimo uomo d’affari Ismael Carrera, proprietario di una importante compagnia di assicurazioni.
I due sembrano non avere molto in comune, se non l’età matura e il fatto che entrambi sono grandi lavoratori, uomini all’antica delusi e preoccupati per il comportamento di figli malriusciti; per il resto non potrebbero essere più diversi, visto che Yanaqué è un cholo, ossia un meticcio dai tratti indigeni, e vive a Piura dove è arrivato giovanissimo e si è ritrovato costretto a sposare una ragazzina che forse era incinta di un altro (solo da poco ha scoperto l’amore con una bellissima ragazza che mantiene con discrezione). Carrera, invece, è un criollo puro che appartiene alle classi alte di Lima, un vedovo solitario e con molti rimpianti.
Le loro storie si dipanano in luoghi differenti e indipendentemente l’una dall’altra: Yanaqué è alle prese con quello che sembra un tentativo di estorcergli un sostanzioso «pizzo» che si rifiuterà clamorosamente di pagare, mentre Carrera fronteggerà l’aggressività di due figli incapaci e avidi sposandosi con la sua cameriera e destinandole l’intera eredità. Entrambi, in nome della dignità e dei valori che hanno contraddistinto le loro esistenze, non esitano a mettere in gioco la propria vita di bravi e normalmente «eroici» cittadini, finchè le due vicende si incroceranno in un lietissimo finale.
Tra cenerentole che si trasformano in eleganti signore, digressioni erotiche, segreti svelati, agnizioni al contrario, inganni, tentati rapimenti, indagini poliziesche, incendi dolosi, indovine infallibili, il romanzo si imparenta intenzionalmente con la forma più tipica del melodramma latinoamericano, ossia il culebrón, l’infinito feuilleton prima radiofonico (quello cioè che fa da spina dorsale a uno dei più celebri romanzi di Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino) e poi televisivo, come conferma don Rigoberto quando constata che le storie della vita quotidiana sono «più vicine alle telenovele venezuelane, brasiliane, colombiane e messicane che a Cervantes e a Tolstoj, senza dubbio». Ma dietro la fabulazione affollata di personaggi, dietro i dialoghi brillanti e il ritorno di figure già note e di buona parte dei temi cari allo scrittore (l’erotismo, le virtù civilizzatrici della letteratura e dell’arte, i pregiudizi razziali, il divario sociale, il devastante sensazionalismo dei media) Vargas Llosa nasconde dell’ altro.
L’eroe discreto, infatti, va letto anche come un romanzo a tesi impregnato di ottimismo neoliberale sul «nuovo» Perù, dipinto come un paese in ascesa, avviato alla prosperità nonostante mille contraddizioni (la violenza, i sequestri, la corruzione), un po’ più democratico e un po’meno «diseguale» di quello raccontato un tempo nel grandioso Conversazione nella cattedrale. A questa possibile lettura, però, se ne sovrappone un’altra ancora, riconducibile all’aspro conflitto generazionale che è in fondo il vero tema del romanzo e che sembra ribaltare l’approccio alla figura paterna caratteristico dell’opera di Vargas Llosa, la cui storia e la cui opera sono segnate in profondità dal conflitto con un padre violento. I figli che appaiono in L’eroe discreto sono invece detestabili, feroci e addirittura criminali, o vili e sbiaditi, oppure inquietanti e ambigui come il luciferino Fonchito, e su di essi si abbatte la giusta e trionfante vendetta dei padri, fondata su inossidabili valori ma anche su un sostanzioso senso di rivalsa, tanto da indurre lo scrittore e critico argentino Gonzalo Garcés a definire Yanaqué e Carrera «machos anziani: patriarchi invecchiati che mal sopportano di essere rimpiazzati (…) Che cosa sono i figli in questo romanzo, se non il Male?»
Divertente e ironico, capace di avvincere il lettore e di farsi rapidamente leggere (ma non rileggere, soprattutto da chi chiede alla letteratura qualcosa di più che essere abilmente intrattenuto), L’eroe discreto non si può comunque considerare uno dei migliori romanzi di Vargas Llosa – o, almeno, del Vargas Llosa autore di una decina di opere memorabili e impossibili da ignorare –, non raggiunge mai gli esiti estetici del passato, tralascia ogni ricerca formale, si risolve troppo affrettatamente e ci restituisce personaggi molto amati, come Lituma, in una versione rigida e di maniera, annullando in parte il piacere di ritrovarli.
Allo stesso tempo, però, L’eroe discreto è la dimostrazione di come si possa confezionare un romanzo ben scritto e di buon livello, presumibilmente gradito a un gran numero di lettori, affidandosi soprattutto ai trucchi e alle risorse di un notevole mestiere e alla padronanza di una tecnica narrativa consumata, fino a costruire un solido «oggetto d’uso» che funziona con meccanica precisione. Il che, tutto sommato, in tempi di negligente sciatteria non è poco. Non è poco neppure incontrare, in una rapida battuta, un nome che ai lettori italiani (e anche a molti di lingua spagnola) forse non dice nulla, ma che rimanda a una delle figure più importanti e misconosciute dell’avanguardia letteraria latinoamericana: quello del peruviano César Moro, pittore e poeta surrealista di grande valore, outsider oggi ingiustamente dimenticato che scrisse quasi tutta la sua opera in francese e che, ormai anziano, insegnò questa lingua al giovane Mario Vargas Llosa. E che oggi lui lo ricordi attraverso la voce del proprio alter ego don Rigoberto è commovente e allo stesso tempo meraviglioso.