Ci sono storie di exploit straordinari, nel mondo delle note rock, o tali, come ispirazione, a tutti conosciute: per entrare subito in argomento (e l’argomento è Vangelis, prima del grande successo) si pensi all’immaginifica colonna sonora di Blade Runner, un retrofuturismo elettronico così smaliziato e autoindulgente da restare qualche spanna avanti negli anni a venire ancora oggi. Ci sono poi exploit altrettanto fuori dalla norma, ma che diventano oggetto di culto solo per le generazioni che seguiranno quella degli autori, mentre il presente immediato è riservato a poche cerchie quasi iniziatiche che annusano in tempo reale il valore dirompente di un’incisione, di un concerto epocale, di un’intuizione. Il tutto succede per uno di quei tiri incrociati che il destino sa giocare molto bene, e qui, in omaggio alle origini greche del grande Vangelis, scomparso il 17 maggio 2022, parleremo piuttosto di Ananke, la temibile divinità del caso e del destino che importuna perfino le trame di Cronos, il tempo e di Zeus, il primo degli dei. Ananke ha giocato bene con Vangelis, rendendolo protagonista prima di un exploit considerato dai cultori musicofili tra i primi dieci dell’art rock progressivo più visionario e anticipatore del pianeta, con la sua band, 666, uno dei dischi più inquietanti e sinistramente splendidi della storia del rock, poi di una collana di perle di successo che, se non ebbero l’urgenza cupa e maestosa di Blade Runner, senz’altro ne dilatarono echi e intuizioni.

PARIGI CHIAMA LONDRA
In questa sede tralasceremo il Vangelis autore di memorabili colonne sonore e sonorizzazioni varie, per ricostruire chi fu Vangelis, mente e leader degli Aphrodite’s Child, punta di diamante di un progressive rock maturo greco tanto riconsiderato, oggi, quanto sostanzialmente ignorato dal grande pubblico mentre le cose reali erano in pieno svolgimento. Vangelis si chiamava in realtà Evàngelos Odysseuus Papathanassiou ed era nato il 29 marzo 1943 ad Atene. La prima formazione era stata da autodidatta, al pianoforte e al flauto, e tale resterà per la vita. Non imparerà mai a decrittare gli spartiti e a fissarci le idee, Vangelis, ma uno straordinario intuito e orecchio musicale lo porteranno comunque a livelli di eccellenza nel maneggiare le tastiere, per certi versi paragonabili a quelle di rocker anglosassoni ben adusi al mondo delle partiture come Rick Wakeman, Keith Emerson o Jon Lord.
Vangelis dunque fa parte di quella generazione di musicisti nati durante la seconda guerra mondiale (quella imposta anche da Mussolini, che avrebbe voluto «spezzare le reni alla Grecia» e per nostra sfortuna le spezzò invece a migliaia di italiani), che negli anni Sessanta sono la polpa vitale del primo «beat», con gli strumenti elettrici. Vangelis nel ’63 ha una cover band che si chiama Formins, e ben presto si imbatte in un vocalist, chitarrista e bassista dalla voce celestiale che si chiama Demis Roussos, già attivo con gli Idols. Immediato sodalizio, e viaggio per i posti dove batte il cuore della «nuova musica», in quel momento. In Europa sono solo due, realmente, le capitali culturali rock, Londra e Parigi. Stabilitisi a Parigi ad annusare il tardo beat che profuma già di psichedelia e di fumo di canapa indiana Vangelis e Roussos incontrano altri due ragazzi greci, il batterista Lukas Sideras, e il chitarrista Anargyros «Silver» Koulouris. Sono anni di collaborazioni e di demo tape, Vangelis vuol fare il salto e trasferirsi con gli altri tre a Londra, ma il destino si mette di traverso: ci sono problemi con i passaporti, e il chitarrista Koulouris deve rientrare in Grecia per il servizio militare. Restano in tre, a Parigi, e nel frattempo la situazione in Grecia precipita: il 21 aprile 1967 ad Atene c’è il golpe fascista dei colonnelli, inizia una dittatura fatta di oscurantismo e torture che durerà fino al ’74, e porterà nel resto d’Europa decine di migliaia di giovani. Vangelis riesca strappare un contratto alla Mercury, il nuovo gruppo si chiamerà Aphrodite’s Child, su suggerimento del musicista Lou Reizner, e piazza subito un colpo magistrale con Rain and Tears, cantata in inglese da Demis Roussos con il suo stratosferico, pungente falsetto avvolto nelle tastiere di Vangelis: è la risposta dei greci ultimi arrivati a A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum. Là c’era il calco dell’Aria sulla quarta corda di Bach, qui un singolare, efficace adattamento cadenzato elegantemente del Canone in Re di Pachelbel.

Una ristampa francese di «Rain and Tears», storico singolo del 1968 degli Aphrodite’s Child

 

ASPETTATIVE DIVERSE
Il primo disco, End of The World è un azzeccato incrocio tra dolci ballate e strane canzoni psichedeliche, tutto in inglese: spunta l’ombra dei Moody Blues accanto a quella dei Procol Harum, sulle stesse rotte proto progressive, Vangelis accende fiammate di note sull’organo Hammond, sul clavicembalo, sul mellotron, oggetto del desiderio per tutti i gruppi prog, con la possibilità che offre di replicare sezioni d’archi semplicemente impostando gli accordi sulla tastiera. Quando suonano nei club parigini, Vangelis cava fuori dalle sue tastiere un oceano di suoni strani, avvolgenti. Raccontano le cronache che un giorno allo Psychedelic Club si presentano i Pink Floyd, che sono a Parigi per registrare le musiche di More, e restano allibiti nel constatare che non ci sono nastri preregistrati: quel suono arriva davvero dalla creazione istantanea dei tre musicisti. Dopo un breve tour europeo, in cui passano anche per l’Italia, Vangelis e la sua band riescono ad approdare a Londra, agli studi Trident: nel gennaio del ’70 esce It’s Five O’Clock, un grande disco pop con micidiali hit in bella evidenza, ad esempio il pezzo omonimo o Spring, Summer, Winter and Fall.
Come spesso succede, il successo con i grandi numeri nasconde in realtà faglie di incomprensione, di rancori, di aspettative diverse. Demis Roussos sta maturando la decisione di dedicarsi a una onesta carriera da pop singer, Vangelis ha in testa mille idee e sperimentazioni «progressive», sulla scorta di quanto già avviene sui palchi: ha già iniziato a farlo a Parigi con Sex Power, musiche per il film di Henry Chapeir, vuole «altro». E l’altro genera il capolavoro, 666. Intanto è tornato dalla Grecia Silver Koulouris, il chitarrista, poi Vangelis s’è avvicinato a Costas Ferris, scrittore e regista greco-egiziano decisamente visionario, in esilio a Parigi. Ferris, giorno dopo giorno, scrive i versi di una sorta di anticipatorio e distopico «oratorio rock»: c’è uno strano circo, e fuori dal tendone è in corso l’Apocalisse e il giorno del giudizio. Vangelis firma tutte le musiche, un «mostruoso» doppio album capolavoro e pastiche che nasce nel rancore, esattamente come Animals o The Wall dei Pink Floyd sotto la guida di Roger Waters: dirige e inventa tutto Vangelis, che immette nei solchi un coro di bambini che ha ben poco di angelico, si inventa in The Battle of the Locusts un cataclismatico duello elettrico, ancora più possente e desolato in The Four Horsemen, il brano per i «cavalieri dell’apocalisse» che sarà ripreso da decine di gruppi metal a venire. E che dire di Altamont, la storia della fine del pacifico sogno hippie, discussa dagli dei dell’Olimpo? Non è ancora tutto. Vangelis guarda lontano, e nei trentanove minuti di Infinity convoca in studio la leggendaria attrice Irene Papas, la mette al buio in una stanza, la avvolge di spire tastieristiche lasciandola libera di abbandonarsi alla più catartica e squassante vocalità oltranzistica mai tentata nel rock. Si parte con dei bisbiglii appena udibili, il finale è un raggricciante grido orgasmico. Un rito misterico registrato per i posteri. Perché gli Aphrodite’s Child qui finiscono, e il disco, suprema ottusità, verrà pubblicato di malavoglia dai discografici solo nel ’72, due anni dopo lo studio d’incisione. Vangelis è già volato altrove, con la sua musica. Verso gli schermi.