Il 2 agosto 1971 l’equipaggio della missione Apollo 15, composta dal comandante David Scott e dai piloti James Irving e Alfred Worden, si avvicina al piccolo cratere lunare della base Hadley. Discretamente, poggia al suolo una placca commemorativa in alluminio su cui sono iscritti, in ordine alfabetico, i nomi di quattordici astronauti e cosmonauti americani e sovietici morti nel corso di missioni legate all’esplorazione spaziale. Nelle rare immagini che registrano l’evento s’intravede anche, sulla sabbia, una statuetta dalle fattezze umane. Senza l’approvazione ufficiale della NASA, l’oggetto è imbarcato dall’equipaggio al Kennedy Space Center in Florida il 26 luglio. Si tratta di Fallen Astronaut, una scultura del pittore e scultore belga Paul Van Hoeydonck, fautore della space art al confine tra scienza e arti visive, vicino al Gruppo Zero, influenzato da 2001 Odissea nello spazio e, all’epoca, soprannominato «l’archeologo del futuro» in quanto utilizza materiali di scarto per le sue sculture. Per essere trasportata e depositata a Hadley Base, la scultura deve rispondere a diverse contraintes: è necessario che sia piccola, leggera, realizzata in un materiale non magnetico e non infiammabile, senza spigoli, resistente alle radiazioni cosmiche e alle variazioni di temperatura dell’ambiente (da -130 a +120). L’artista è costretto a rinunciare al cilindro di plexiglas blu che conteneva la scultura, simbolo del viaggio celeste dell’essere umano.

Alta 8,5 cm, realizzata in alluminio, è priva di connotazioni di genere o di etnicità per abbracciare l’umanità intera. Ora, a dir il vero, il suolo del satellite della Terra non è vergine: qui e lì ci sono rover e basi dei moduli lunari di missioni precedenti, oltre a un numero cospicuo di rifiuti d’ogni genere, come ricorda Stefano Catucci: «Per una missione classificata H come Apollo 14, che prevedeva due giorni di permanenza sulla Luna e due escursioni all’aperto, la Nasa ha elencato 110 tipi di residui diversi, compresi sacchi, zaini, amache usate per dormire e contenitori vari che, assieme alle tute, ai guanti, ai caschi, agli stivali, ai saponi, avranno contribuito a dare allo spazio intorno agli abitacoli l’aspetto di pionieristiche discariche» (Imparare dalla Luna, Quodlibet 2013). Fallen Astronaut tuttavia è l’unica opera d’arte umana presente sulla Luna (considerato che l’uomo non vi mette piede da ormai cinquant’anni) e anzi l’unica opera d’arte fuori dal nostro pianeta (in attesa di andare su Marte negli anni 2030 stando alla NASA). Le vicissitudini legate a tale memoriale extraterrestre, dalla Waddell Gallery di New York dove esponeva Van Hoeydonck all’incontro con gli astronauti dell’Apollo 15 nel giugno 1971, sono affascinanti. Così come l’affaire suscitato dalla NASA, recentemente ricostruito in un documentario (Frank Herrebout e Leo van Maren, Fallen Astronaut, 2020), che mostra come l’artista sarà costretto a lasciare gli Stati Uniti e a metter fine ai suoi progetti cosmici più ambiziosi. Resta il fatto che l’impresa del Fallen Astronaut gli ha giocato un brutto tiro: il nome di Van Hoeydonck è rimasto legato soprattutto se non esclusivamente a questa scultura, un manufatto letterale (come il resto della sua produzione), minuscolo e artisticamente scialbo, simile allo stampo di un playmobil monco. Come a Van Hoeydonck spetti il destino di essere più conosciuto sulla Luna che sulla Terra, di avere una reputazione galattica da cui gli umani sono esclusi. Perlomeno fino a oggi, se pensiamo al programma Artemis e altre iniziative volte a dare nuovo slancio alla conquista della Luna e a preparare la missione su Marte. In ballo c’è uno sfruttamento colossale di risorse e, in generale, una forma di capitalismo cosmico lontanissimo dallo spirito di Fallen Astronaut.