Valentin Silvestrov – considerato a torto o a ragione il maggior compositore ucraino vivente – possiede il dono dell’idea lucente, dell’immagine scolpita, della folgorazione che lascia senza parole. Qualche anno fa, ad esempio, conversando con il filosofo Costantin Sigov durante un convegno al S.Clement Institute di Lichnya, formulò all’improvviso un’espressione ermetica ed enigmatica che, proprio per questo, chiede di essere scavata e nei limiti del possibile svelata: «musica della vulnerabilità». La definizione saltò fuori dal cilindro di Silvestrov nel momento in cui Sigov gli pose una domanda decisamente astratta: «Esiste secondo lei una musica che riflette l’essenza dell’essere vivente, che riassume il carattere o i caratteri della persona umana?» Invece di rifugiarsi in una risposta generica e comprensibilmente evasiva il compositore se ne uscì, con la sua usuale sfrontatezza concettuale, in una affermazione sorprendente: «Certo che esiste, è il canto gregoriano». «È perché?» sussurra il filosofo palesemente sconcertato. «Perché il canto cristiano antico è come la fiamma di una candela che ondeggia, che oscilla ad ogni alito di vento. E che rischia ad ogni istante di spegnersi». «E dunque?». «E dunque mette in luce tutta la sua fragilità, la sua debolezza, la sua vulnerabilità. Esattamente come l’essere umano. Noi pensiamo che l’identità di una persona sia data dalla sua stabilità, dalla sua forza, dalla sua «rocciosità». E invece noi siamo l’esito della nostra insicurezza, della nostra gracilità. E se esiste una «musica della vulnerabilità» è la musica più antica che conosciamo, la più esile, la più delicata, la più cagionevole, quella che si cantava nelle chiese cristiane delle origini, quando la scrittura musicale ancora non esisteva…».

Il velo dell’enigma pian piano si solleva. La «musica della vulnerabilità» – secondo Silvestrov – è dunque una musica «instabile», che può mutare al colpo di vento di ogni esecuzione, che non può ripararsi dietro la certezza del testo scritto, che apre un vulnus, appunto, una ferita, una crepa nel muro solido e roccioso di una lingua «sicura». Ed è dunque «vulnerabile» come il tallone di Achille stretto tra le dita di Teti quando lo immerge nello Stige, come la spalla di Sigfrido che rimane coperta da una foglia quando Fafner lo bagna con il suo sangue, come un discorso retorico che mostra la sua debolezza, come una postazione militare che rimane isolata, come un edificio che resiste a fatica alle ingiurie di un terremoto.

Ma allora, se le cose stanno così, la categoria della «vulnerabilità» non può, non deve essere chiusa entro l’orizzonte del canto «gregoriano». Anche perché, se ci si mette a caccia, la si ritrova in ogni angolo, in ogni piega, della tradizione musicale occidentale. Non è forse vulnerabile il sospiro affannato, impaurito di Barbarina quando canta «L’ho perduta, me meschina» e apre una ferita di inquietudine nella folle journée delle Nozze di Figaro di Mozart? Oppure l’apparizione straniante del motivetto giocoso di «Notte e giorno faticar» nella sequenza inesorabile ed epica delle Variazioni Diabelli di Beethoven? O ancora l’anti-tema, fragilissimo, disarmante, fatto di intervalli di terza e sesta, che segna l’incipit «inaudito» della Quarta Sinfonia di Brahms? Oppure l’improvviso squarcio liederistico di Erbarme dich nell’incedere solenne e teologico della Passione secondo Matteo di Bach? E non è proprio in queste e in tante altre «ferite», in queste improvvise epifanie di fragilità, che si annida, in molti casi, l’essenza più profonda di un’opera, di una cantata, di una sinfonia? È esattamente in questi luoghi appartati e nascosti che emergono in effetti, a ben sentire, le rivelazioni inattese di una bellezza capace di «muovere gli affetti» come nessun’altro oggetto invulnerabile. Forse perché – come sostiene Silvestrov – l’essenza di una creatura si nasconde nel suo vulnus, nella ferita che la fa sanguinare, forse perché l’essenza è la ferita. Nella musica come altrove.