I Paesi europei si sono messi alle spalle la Grande Recessione grazie ad un recupero di competitività delle proprie economie (trainate dall’export), il cui peso è stato caricato quasi interamente sulle spalle del lavoro e dei redditi dei ceti popolari.

Un peso che colpisce i più deboli grazie alla svalutazione interna, e alla deflazione salariale. Il segno positivo davanti ai tassi di crescita, però, si deve anche ad altro, che non ha a che fare con i fondamentali dell’economia, bensì con le metodologie di misurazione degli stessi.
A partire dal 2014, infatti, per il rilevamento delle grandezze che descrivono l’andamento dell’economia si utilizzano i nuovi parametri del Sec 2010 (Sistema europeo dei conti nazionali e regionali), il sistema che detta i principi e i metodi di contabilità nazionale a livello europeo, partorito da una collaborazione tra l’Ufficio statistico della Commissione (Eurostat) e le strutture contabili dei singoli Stati membri.

In ottemperanza al «principio di esaustività», già introdotto dal precedente sistema, ma sul quale permanevano riserve da parte di alcuni Stati, il Sec 2010 stabilisce che le stime devono comprendere, necessariamente, «tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico».
Questo significa che da tre anni a questa parte, il calcolo del Pil in ambito Ue tiene conto di tutto, anche delle attività illegali, criminali, mafiose. E’ quella che viene definita «economia non osservata nei conti nazionali», dove al sommerso si aggiungono, adesso, anche il traffico di sostanze stupefacenti, il contrabbando di tabacco, i servizi della prostituzione. La prime due voci sono calcolate “dal lato della domanda”, la terza “dal lato dell’offerta”. In tutti i casi, comunque, siamo in presenza di cifre ben al di sotto di quelle reali. Per quanto riguarda l’Italia, tutta l’«economia non osservata» vale all’incirca 200 miliardi, complessivamente. Per un Pil di milleseicento miliardi di euro, il 12,5%. Dentro questo calderone le attività criminali vere e proprie valgono all’incirca 16 miliardi di euro, l’1% del Pil. Mica poco, se si considerano gli attuali tassi di crescita della nostra economia (+0,9% nel 2016, 1,6% quest’anno). D’altro canto, non è casuale che la grande crisi, nel nostro Paese, coincida proprio con il settennio 2008 -2014.

Cosa accadrebbe se a fine anno sottraessimo dal valore complessivo della ricchezza nazionale la quota imputabile ad attività criminali? Nella migliore delle ipotesi registreremmo una crescita prossima allo zero, dopo un ritorno in recessione nell’anno precedente.
Il problema, a ben vedere, è che l’economia criminale è sempre esistita. Anche quando non veniva computata nel calcolo del Pil. Ne consegue che i tassi di crescita registrati negli ultimi anni sono mendaci rispetto all’effettivo recupero della ricchezza persa dall’inizio della crisi. Parliamo di 10 punti di Pil, poco meno di 180 miliardi di euro a prezzi correnti. Di più: senza il computo dell’economia criminale, il crinale tra crescita e recessione diventa quanto mai sottile.
Beninteso: la crescita, oggi, costituisce sempre meno un parametro su cui fondare aspettative di benessere collettivo.

Lo dimostrano i dati sull’occupazione e sui redditi, la povertà che cresce. Nondimeno, i numeri hanno il loro significato in economia, anche (o soprattutto) a fini statistici e storici. Se non fosse stato sciolto il nodo dell’inserimento nel Pil dei proventi delle attività illecite, adesso, a proposito dell’economia italiana, staremmo a parlare d’altro. Per esempio, di una recessione da cui non riusciremmo a tirarci fuori da dieci anni a questa parte, ovvero di una persistente stagnazione, che, poi, è ciò che maggiormente corrisponde alla realtà.