Il pubblico del Creberg Teatro approva con entusiasmo. È piuttosto tra i critici che i pareri si dividono: molti lamentano un «troppo pieno», un’esagerazione di note, un rullo compressore pianistico. Ma stiamo parlando di un duo di pianisti cubani.

Il pianismo JAZZ di Cuba ha fatto di una cifra stilistica lussureggiante, che corrisponde alla sensualità e all’esuberanza cubane, e sorretta da una padronanza tecnica superlativa, costruita sullo studio del repertorio classico, più o meno una «scuola» a sé. Non è un pianismo che indulga alla rarefazione. Figurarsi in un duo: è ovvio che non ci sarà molto spazio per il vuoto, sarebbe come attendersi requie da un gruppo noise rock newyorkese, o una tregua da una formazione di soukous congolese. Si tratta di sapere in che ambito ci si trova. Poi naturalmente c’è noise rock buono e cattivo, e soukouss buono e cattivo. Quanto ad un duo Chucho Valdés/Gonzalo Rubalcaba non c’è dubbio che siamo nella sfera dell’eccellenza.

Settantaseienne, già leader di Irakere, storica e innovativa band che ha lasciato una traccia profonda nella musica cubana, Valdés come pianista è un maestro nello sfiorare l’eccesso: assieme alla formidabile agilità tecnica, alla limpidezza del tocco, alla facilità dell’articolazione, ad un gusto che è un emblema del pianismo cubano, è anche questo a fare di lui uno dei più grandi pianisti jazz in attività. Dal canto suo Rubalcaba, di una ventina d’anni più giovane, per la verità da un certo momento è sembrato volersi sottrarre al rischio dell’esteriorità insito nel pianismo di impronta cubana, elaborando un approccio più riflessivo e più asciutto. Nell’alternarsi dei ruoli, il duo è particolarmente avvincente quando è Valdés ad incaricarsi dell’esposizione e dell’improvvisazione sul materiale tematico, con la sua nitidezza e la sua facilità di eloquio, e Rubalcaba si dedica in velocità ad un serrato contrappunto di forte incisività, che rende i brani più densi, e più complessi e articolati sul piano ritmico.

È un gioco virtuosistico, ma di gran classe, con un contegno che evita qualsiasi scivolata nel kitsch o nella gigioneria. Ed è un piacere anche per gli occhi, nel seguire le mani dei due pianisti che si fronteggiano e stare attenti a distinguere chi fa che cosa.

Linda Oh Quartet (foto Gianfranco Rota)GFR_5822

Prima della serata al Creberg, in uno dei numerosi concerti che riempiono le giornate di Bergamo Jazz (di cui abbiamo potuto seguire solo alcuni appuntamenti), la contrabbassista Linda May Han Oh, strumentista di tutto rispetto, non per niente utilizzata da leader di primo piano (fa parte del nuovo quartetto di Pat Metheny), ha offerto un esempio estremamente pregevole di musica invece assai meno satura. Con il suo quartetto con Greg Ward al sax alto, Matthew Stevens alla chitarra e Arthur Hnatek alla batteria, la musicista di origine cino-malese, e newyorkese di adozione, ha proposto (imbracciando anche il basso elettrico) il repertorio del suo recente album Walk Against Wind: atmosfere sottili e piuttosto positive, pur non senza qualche venatura malinconica, in brani dallo sviluppo ben definito, con arrangiamenti calibrati, ritmicamente non banali, e ricchi di spunti melodici affabili ma mai utilizzati in maniera piatta.

Il festival di Bergamo ha festeggiato le sue quaranta edizioni con una mostra fotografica corredata da un bel catalogo, Bergamo Jazz Festival 1969-2017, e con una serata finale con protagonisti i suoi ultimi direttori artistici: Uri Caine al piano, e alle trombe Paolo Fresu, Enrico Rava e, alla sua terza edizione e già confermato per una quarta, Dave Douglas.