Se Gustave Flaubert potesse aggiornare il suo Dizionario dei luoghi comuni, senza dubbio alla voce «Western» si leggerebbe: «sempre crepuscolare». E poi: «Un’eccezione, I fratelli Sisters di Jacques Audiard». Presentato in concorso alla Mostra di Venezia, è stato accolto come l’opera che infine porta il cinema francese nel genere cinematografico per eccellenza. Ma, cappelli, cavalli e pistole a parte, I fratelli Sisters non ha molto del western, il che ovviamente non è in sé un difetto.

TOLTO Audiard, è anche ben poco francese. Ma allora cos’è? È una favola letteraria, a tratti onirica, piacevole ma costantemente sfocata. Il film vaga tra diversi toni e forme, errando come i suoi eroi alla ricerca di una sua ragion d’essere. Sempre in primo piano c’è il tema della fratellanza. Eli e Charley Sisters (rispettivamente John C. Reilly e Joaquin Phoenix) sono due fratelli che pur facendo lo stesso mestiere, quello di sicario, hanno poco in comune. L’uno è di bell’aspetto, l’altro è sgraziato. L’uno è irruento, l’altro riflessivo, l’uno spietato l’altro empatico, l’uno Stanlio l’altro Ollio, verrebbe da dire (il geniale Reilly è in sala anche col biopic dedicato alla famosa coppia della slapstick comedy).

Se non fosse che Audiard, il quale dedica Sisters al proprio fratello scomparso prematuramente, non racconta la storia di due contrari che si completano, ma piuttosto quella di due tipi umani che improvvisamente si scambiano i ruoli. Al centro del film, e nel bel mezzo dell’avventura dei due sicari Sisters, Audiard piazza un segnavia: un personaggio di nome Mayfield. Questi è proprietario di un saloon che porta il suo nome, situato in una città anch’essa chiamata Mayfield.

ORA, è la città che ha dato nome al saloon e al boss o piuttosto il contrario?
Come in un romanzo di Kafka, nel mondo di Mayfield, il fondamento sembra sorreggere sé stesso, in un circolo vizioso al quale Audiard aggiunge un tocco post-moderno: Mayfield (interpretato dall’attrice Rebecca Root) è un transgenere, e per Audiard un simbolo dell’essenza stessa del genere western, ovvero di un genere che fa della frontiera il proprio oggetto. Ma cos’è una frontiera? E come si rappresenta un limite tra due contrari?

In Sisters è la storia stessa ad inseguire questo mistero, che ruota intorno ad una formula chimica la quale rende visibile ciò che per definizione è raro e nascosto. E che nell’utopia del suo inventore consentirebbe di ribaltare l’ordine della storia, trasformando la corsa all’oro nell’inizio d’una società socialista… Certo a Jacques Audiard la formula dell’inversione ha portato fortuna: film dopo film, resta lo strumento principale delle proprie sceneggiature, dove sistematicamente ogni sconfitta del protagonista è trasformata in vittoria, così che le sue pellicole somigliano a dei videogiochi, in cui l’eroe passa da un livello al superiore fino alla prova finale.
Qui l’esperienza è po’più tortuosa è un po’ meno noiosa del solito. Grazie ad un cast di attori eccezionali e ad una confezione luccicante ma che la migliore formula chimica non trasforma in oro.