Non è tempo di utopie. Per questo è necessario tornare a parlare di Utopia. Siamo in catene tra le sbarre di un eterno presente, una condizione che ci toglie la libertà sia di guardare indietro sia di mirare avanti: perché, secondo l’opinione corrente e dominante, il passato ha il dovere di morire e l’avvenire non ha il diritto di vivere. Per reazione, a cercare luce dalla caverna, sovversive diventano allora due facoltà grandemente umane, la memoria e l’immaginazione. Esse vanno coltivate insieme e non l’una contro l’altra: è questo quanto voglio tentare di dire. Aggiungendo: il riferimento non deve essere a ieri, ma all’altro ieri; non al domani, ma al dopodomani.

L’immediato passato è ciò che ha prodotto questo presente: va messo sotto critica. L’immediato futuro è tutto nelle mani di chi comanda oggi: occorre strapparglielo. Mai dimenticare che quando si pensano concetti politici, bisogna legarli a filo doppio con le lotte. Nel viaggio per raggiungere le coste dell’isola di Utopia, si arriva attraversando un mare in tempesta, non certo cullandosi nella grande bonaccia delle Antille.
Questo è tempo di distopie.

C’È IL RULLO COMPRESSORE di un processo storico che va avanti per conto suo, senza che nessuno lo guidi, perché non ha bisogno di guida, ha una logica autonoma di sviluppo e di crisi, secondo leggi di movimento vetero-e-neocapitalistiche perfettamente tra loro intercambiabili. Il Leviatano della tecnica non è soggetto, è strumento, dopo il Novecento, come il Leviathan della politica lo fu nel Seicento. Allora servì all’accumulazione originaria della ricchezza delle nazioni, cioè del capitale-mondo, oggi serve alla dissipazione finale delle risorse della terra. E non è in vista il Behemoth delle guerre civili.

I conflitti esistono. E non possono non esistere in società profondamente divise, come le nostre. Ma sono conflitti falsi nell’azione dei soggetti, come le false notizie nella comunicazione delle parole. La falsità consiste nel fatto che non servono, perché non mirano, a mettere in crisi il meccanismo oggettivo di permanenza delle attuali forme di vita, nella loro specifica originale presenza, imposte e insieme accettate. Il discorso di utopia ha oggi il compito di lavorare a distinguere, a dissociare, a separare, imposizione e accettazione. Il pensiero utopico, o riesce ad essere antagonista pensiero critico di ogni giorno, oppure rischia di diventare una consolatoria filosofia della domenica.

Utopia, per me, è un al di là. Al di là terreno. Esito a dire mondano. Perché mondo oggi si identifica con questo mondo: esattamente ciò che mi respinge e che mi spinge a cercare un oltre. Sento vicina, per questa via, ogni misura o dimensione trascendente. Senza identificarmi con le forme teologiche che essa assume, trovo lì, e utilizzo, un pensare, e un parlare, di misura politica, che metaforicamente, o allegoricamente, accenna a qualcosa d’altro da qui, da questo. C’è antagonismo già in questa sola scelta. Mentre nella scelta, opposta, di un rigoroso immanentismo, non c’è via d’uscita dalla subalternità a ciò che è, così com’è.

PER IL TEMPO che stiamo vivendo, per la contingenza che stiamo sperimentando, non è possibile immaginare un’utopia politica, è necessario pensare un’utopia teologico-politica. Se, come vedremo, seguendo Bloch, quanto ci interessa è «l’utopia concreta», il teologico politico, più del politico, è in grado di assicurarci quel non-ancora realistico che andiamo cercando. Non giriamoci intorno, fermiamo il punto.
Nel Magnificat leggiamo: abbattere i potenti, innalzare gli umili. Ecco il teologico. Come abbattere i potenti, come innalzare gli umili. Ecco il politico. E non si dica: troppo semplice. È compito del pensiero politico ridurre la complessità della storia, in modo che questa possa essere agita non solo da chi la possiede intellettualmente, ma da chi la soffre esistenzialmente.

QUESTO MONDO. Questo tempo. Per il discorso di utopia, è preliminare intendersi su tali espressioni. Mondo e tempo, nemici. Una delle difficoltà, forse la maggiore, nel parlare oggi dell’oltre, è la generale assuefazione allo stato delle cose presente, una rassegnazione di massa, del resto culturalmente motivata, dall’impossibilità, come si usava dire in fondo fino a non molto tempo fa, di «cambiare il mondo».

Non che sia assente la parola cambiamento. Anzi, per dar luogo a quel falso movimento che è il consenso democratico, basta pronunciarla, ancora meglio gridarla. Il che è interessante: perché vuol dire che non si è soddisfatti di come vanno le cose, di come sono andate fin qui, da parte di chi le ha governate. Ci si affida ai prossimi governanti, perché le cose cambino. È l’inganno delle attuali democrazie realizzate. Offrire l’illusione del cambiamento è il modo più intelligente finora trovato per mantenere le cose così come stanno. Non c’è più bisogno dei mostri biblici per governare i popoli. Bastano rassicuranti animali domestici, che non a caso occupano ormai le stanze di gran parte delle case, un tempo occupate dai bambini.

Cambiamento è parola da pensiero debole: un non-pensiero che registra, ricalca, riflette una non-società. Non aveva affatto torto Margareth Tatcher a dire: la società non esiste, esistono solo gli individui. Definiva esattamente questo mondo, del neoliberalismo a trazione economico-finanziaria. Qualcuno ci ha insegnato che devi conoscere il nemico meglio di quanto il nemico conosca sé stesso.

È QUESTO IL CASO. Sono sempre i padroni, e chi li rappresenta, a dirti come stanno veramente le cose. I contestatori generosamente credono alla favola dell’animale uomo naturalmente socievole. Ma secoli di anarco-capitalismo hanno depositato tra noi un’altra specie umana: quella. È qui che il discorso di utopia inciampa e ruzzola. Allora devi mettere in campo non una debole idea di cambiamento, ma un concetto forte di trasformazione. Trasvalutazione di tutte le forme: di produzione, di scambio, di consumo, ora e sempre delle forme di potere e, nello specifico odierno – drammatico problema – delle forme di comunicazione. E di conseguenza, la messa in discussione delle forme di vita, quelle che non si scelgono ma si subiscono, quelle che non si godono ma si soffrono, quelle che quotidianamente si sperimentano non su di sé ma contro di sé.
Questo è un mondo che produce il massimo dell’avvenirismo tecnologico e nello stesso tempo provoca il massimo della decadenza umana. Non dico che quello produce questa. Sul tema, conviene essere né apocalittici né integrati. Non è la tecnica l’Anticristo da trattenere prima che conquisti per intero le nostre anime. È semmai l’uso della tecnica che ne fa chi comanda, cioè chi detiene, gestisce e manovra ricchezza e potere. Il destino del post-umano incombe, nella prospettiva distopica di macchine intelligenti e uomini stupidi, di intelligenza artificiale e idiozia naturale. E la salutare attenzione sul disastro ambientale prossimo venturo, come problema di tutti, stiamo attenti che non nasconda il discorso sulla responsabilità di alcuni.

Lo stato delle cose da trasformare funziona sempre in questo modo: la mobilitazione totale sull’interesse generale serve perché stiano al sicuro, non viste, non considerate, ben precise responsabilità particolari. Saperlo, questo, è la prima mossa da compiere per il soggetto della trasformazione. La seconda è avviare un processo di smascheramento che porti alla denuncia delle conseguenze e all’approntamento dei rimedi. Il discorso di utopia sta stretto entro queste condizioni.

ECCO IL MOTIVO per cui, prima di avventurarci nelle risposte circa il futuro, vanno poste alcune domande su questo presente. Perché questa condizione disperata che vede da una parte classi dirigenti non all’altezza, vede dall’altra parte una massa di individui non in rivolta? Perché tutti questi omuncoli al governo dei paesi e nello stesso tempo tutta questa gente ad inseguire demagoghi? Il problema non è il contrasto tra élites e popolo, ma tra élites squalificate e popolo disorientato. Allora, la critica di questo mondo va accompagnata con la critica di questo tempo. Lo so che da questo orecchio non si vuol sentire. Nessuno, di quelli che contano qualcosa, è disposto ad ascoltare, chi per arroganza, chi per subalternità.

Eppure, non è una voce che sta parlando, è un dato di realtà che sempre più si va imponendo. Finché non ci sarà presa di coscienza, politico-culturale, collettiva, di quanto devastante sia stata la reazione antinovecentesca, che negli anni Ottanta ha chiuso in anticipo quel secolo, fin lì, sappiamolo, è utopico parlare di utopia. Reazione è la parola giusta, perché è stato un fatto storicamente reazionario, solo mascherato di idee liberali, di forme democratiche, di pappe del cuore etiche. Il lavoro, politico-intellettuale, di smascheramento di questo tempo è altrettanto essenziale quanto quello che riguarda questo mondo.

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Il numero monografico

Il nuovo numero della rivista bimestrale «Infinitimondi» sarà in distribuzione dal 7 ottobre. Il numero monografico è dedicato al concetto di utopia. La sollecitazione prima è nata dal confronto con Antonio Casu e Mario Tronti. Poi è rimbalzata nei colloqui in Campania con Peppino Cacciatore e con Pino Cantillo. È poi tornata a Roma in un confronto parallelo con Alberto Olivetti e Pietro Folena. E da lì si è estesa coinvolgendo i tanti e le tante che hanno contribuito al «farsi» del numero: Fulvia Bandoli, Piero Bevilacqua, Francesca Brezzi, Maurizio Cambi, Domenico Fortunato, Giulio Giorello, Enzo Rega, Iaia De Marco, Michele Mezza, Alfonso De Nardo. (www.infinitimondi.com)