«I miei romanzi celebrano anche il silenzio. Il silenzio è una parte essenziale del linguaggio, senza silenzio la lingua non può maturare». Le parole con cui Usama Al Shahmani ci racconta il percorso che affronta nell’atto del narrare fa pensare alla musica e all’importanza dei suoi silenzi. Lo scrittore iracheno, esule in Europa dagli anni della dittatura di Saddam Hussein, torna con un nuovo libro, Quando migrano, gli uccelli sanno dove andare (pp. 176, euro 17, traduzione di Sandro Bianconi), pubblicato come i precedenti da Marcos y Marcos.
Oggi Usama Al Shahmani sarà al Salone di Torino alle 16 (Sala internazionale), in dialogo con Nadeesha Uyangoda.

Nel nuovo romanzo torna il tema centrale della fuga dal proprio paese e del dolore, mai rimarginato, della perdita.
Nelle mie tre opere ho cercato di affrontare i temi della guerra, della dittatura, dell’oppressione e l’esperienza della fuga e dell’esilio. Scappare significa la perdita della lingua, della cultura, dei legami sociali e di quelli familiari ma anche dei sogni che si sperava di realizzare a casa. All’improvviso evaporano.
Quanto questo impatta nella costruzione della propria identità? L’identità è qualcosa di fisso o di malleabile? Può cambiare forma con il tempo o è predeterminata? Tra le domande che preoccupano i protagonisti delle mie storie, accanto alla ricerca dell’identità, c’è la lingua. Cosa cambia quando parliamo una lingua diversa dalla nostra? Possono gli scrittori usare la stessa lingua brandita dai dittatori per reprimere e terrorizzare?

Nel libro racconta la sua attività culturale, da studente, e come l’arte sia vista minacciosa dall’autorità e dalla sua relativa narrazione monolitica. Il suo protagonista sembra uscirne sconfitto. Possono ancora il teatro, l’arte, la letteratura smascherare il potere?
Le dittature hanno paura delle parole, vedono la cultura come una linea rossa, una minaccia esistenziale. Il 10 maggio 1933 a Berlino il regime nazista bruciò i libri in pubblica piazza. Ne seguirono roghi di libri che hanno attraversato tutto il secolo scorso. Perché la cultura, la condivisione di libri, la danza, la musica, la libertà di pensare, di respirare e di muoversi – ovvero tutti quegli elementi che la civilizzazione ha a cuore – sono proibite dall’autoritarismo. Quando scrissi una pièce teatrale in Iraq, ero uno studente. Fu bandita. Appena tre settimane dopo, l’intelligence irachena scovò tutte le persone coinvolte e mi costrinse alla fuga. Oggi c’è libertà in Iraq e negli altri paesi arabi? È una domanda complessa: ci sono partiti radicali al potere e autorità censorie che impediscono agli artisti di sfidare quel potere. Penso che il compito della letteratura sia tracciare altri spazi dove le storie possano essere narrate e dare voce a chi non la possiede. Niente è apolitico. Non esiste letteratura che non sia politica.

Nel romanzo esplora anche la precarietà dei rifugiati in Europa: la mancanza di un posto stabile, il costante trasferimento, le difficoltà burocratiche. Tale precarietà è lo specchio di quella da cui si tentava di fuggire?
Scappare dal proprio paese non è un breve viaggio, ma rappresenta una trasformazione, uno sconvolgimento violento del proprio essere. Molti non riescono più a ritrovare un equilibrio. Devono adattarsi a una nuova società, a un nuovo clima, a una nuova cultura. Così, finiscono per chiudersi in se stessi o cercare soluzioni che spingono verso un isolamento ancora peggiore.