I morti di Beirut e l’ombra di una nuova guerra civile in Libano non indurranno gli Stati uniti e Israele a cessare la pressione sulla «Mezzaluna sciita», l’alleanza guidata dall’Iran e di cui fanno parte la Siria, il Libano attraverso il peso che esercita nel paese il movimento Hezbollah e lo Yemen dei ribelli Houthi. Washington attraverso il segretario di Stato Antony Blinken mercoledì ha fatto sapere che non sosterrà alcuno sforzo per normalizzare la relazioni tra i paesi arabi suoi alleati e la Siria. E che non «riabiliterà» Damasco se non ci saranno «progressi irreversibili verso una soluzione politica». Vuol dire che sino a quando Bashar Assad e il partito Baath non saranno allontanati in un modo o nell’altro dal potere, gli Stati uniti non muteranno la loro linea e non revocheranno le sanzioni economiche (Caesar Act) che colpiscono anche il Libano. L’aver permesso a modesti quantitativi di petrolio iraniano di raggiungere il Libano e il via libera alla fornitura a Beirut di gas ed elettricità da Egitto e Giordania, attraverso il territorio siriano, è solo una eccezione alla linea della Casa Bianca dettata dalla grave crisi energetica nel paese dei cedri.

Blinken boccia la recente ripresa dei rapporti tra Siria e Giordania così come il riavvicinamento di altri alleati arabi – Emirati ed Egitto – con Bashar Assad che lascia pensare a un prossimo rientro di Damasco nella Lega araba. «Quello che non abbiamo fatto e quello che non intendiamo fare è esprimere alcun sostegno agli sforzi per normalizzare le relazioni, riabilitare Assad, revocare le sanzioni alla Siria e modificare la nostra opposizione alla ricostruzione della Siria fino a quando non ci saranno progressi irreversibili verso una soluzione politica, che riteniamo necessaria e vitale», ha spiegato Blinken. Parole che correggono in parte le previsioni su un sostanziale disimpegno statunitense dal Medio oriente, dopo il ritiro dall’Afghanistan, per privilegiare lo scontro in Oriente tra Washington e Pechino.

Le pressioni degli alleati israeliani in questi mesi hanno portato l’Amministrazione Biden ad irrigidire le posizioni contro la «Mezzaluna sciita» fino ad adottare una linea non molto diversa da quella di Donald Trump. Sempre mercoledì Blinken, dopo aver incontrato il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid, ha posto sul tavolo l’opzione militare, la guerra, se Tehran non accetterà le condizioni Usa per il rientro nell’accordo (Jcpoa) sul programma nucleare iraniano. Alcune variabili, tuttavia, ostacolano la strategia di Usa e Israele. Una è il ruolo assunto di recente dall’Arabia saudita, alleata di ferro degli Usa e di Israele, che dopo aver invocato per anni il pugno duro con l’Iran e il suo programma nucleare, adesso pare disposta a migliorare i rapporti con Tehran interrotti dal gennaio 2016. I negoziati tra i due paesi vanno avanti da aprile e non si sono interrotti dopo l’elezione a presidente iraniano del falco Ebrahim Raisi. Riyadh potrebbe presto consentire all’Iran di riaprire il suo consolato a Gedda sebbene i colloqui non abbiano ancora fatto progressi sufficienti per ripristinare le relazioni diplomatiche, su cui spinge l’Iran per uscire dall’isolamento e per aggirare le sanzioni Usa. All’Amministrazione Biden questa trattativa non piace. Ma la guerra in Yemen è diventata il Vietnam dell’Arabia saudita. I frequenti attacchi con missili o lungo la frontiera degli insorti sciiti Houthi sono un peso insopportabile per i sauditi. La via d’uscita passa solo per un accordo con l’Iran sponsor dei ribelli yemeniti. L’irruento e brutale principe ereditario Mohammed bin Salman, fautore per anni del braccio di ferro con gli sciiti, pare aver compreso che la sicurezza dell’Arabia saudita non è garantita solo dall’ombrello americano ma passa anche per la diplomazia e migliori relazioni con i paesi vicini.