Accomunate dalla rabbia e collegate dai social media le proteste si sono nuovamente impadronite della notte americana: ad Oakland, Detroit, Chicago dove le manifestazioni hanno bloccato il centro, a Cleveland dove la gente si è sdraiata in terra chiudendo coi propri corpi il Detroit-Superior bridge, a Miami dove i manifestanti hanno invaso la 195, una delle principali arterie della città, a Boston le folle si sono impadronite di Harvard square e invaso la zona universitaria di Cambridge. Poi Los Angeles, Minneapolis e New York dove la gente è tornata riunirsi e per evitare una pioggia battente ha inscenato die-in nella Grand Central Station nei magazzini Macy’s e nell’Apple store della 5th Avenue, perché come ha detto un contestatore «è ora di portare la lotta dove più conta: al cuore del capitalismo».

A Brooklyn c’è stata veglia per Akai Gurley, ucciso da un poliziotto nelle case popolari del quartiere solo due settimane fa. Il suo caso verrà esaminato da un ennesima grand jury per valutare se rinviare a giudizio l’agente colpevole; potrebbe essere un’altra catastrofe annunciata. La pacifica invasione delle strade e delle città sta diventando un rito quotidiano e nazionale.

La nuova disubbidienza civile dilaga, apparentemente caotica ma anche molto disciplinata nell’organizzazione «massicciamente parallela» che vede replicato in decine di città lo stesso tipo di azione di disturbo con lo slogan di «la rivoluzione deve essere scomoda». Ci sono stati centinaia di arresti, più di 300 in settimana solo a New York e molti altri nel resto del paese ma fin’ora non si sono registrate cariche della polizia che mantiene perlopiù una prudente distanza.

Gli sforzi dei contestatori, molti gli studenti e i ragazzi delle secondarie ma anche uomini, donne, cittadini di tante razze e colori, stanno irrevocabilmente modificando il dialogo su razza, razzismo e sulla brutalità della polizia in America. Non è poco, in un paese dove precedentemente non sono bastate rivolte civili con decine di morti e anni di rivendicazioni e denunce di esponenti politici a fermare la sanguinosa scia di vittime della polizia che da anni funesta la nazione.

I numeri non mentono: come i dati sull’incarcerazione e sulla pena di morte, rivelano lampante il razzismo istituzionale che miete vittime superiori per molti ordini di grandezza fra gli afroamericani. Statistiche vergognose che inchiodano i responsabili a un’infame tradizione.

Poi c’è una diffusa cultura di “ordine pubblico” basata sulla “tolleranza zero” e il controllo sociale imposto con la forza. Una fatale ricetta quando una polizia armata fino ai denti è la prima linea di contatto con una impressionante popolazione di senza tetto e malati di mente abbandonati sulle strade d’America. Antiche malattie oggi chiamate in causa con una forza non vista dal movimento per i diritti civili di 50 anni fa. L’indignazione per una stringa di casi particolarmente iniqui, da Michael Brown a Grant a Tamir Rice, il bambino ucciso a Cleveleand, ha dato un nuovo vigore a un movimento progressista che negli anni scorsi ha avuto difficoltà a concretizzare obbiettivi e sostenere la protesta. Per chi negli anni ha visto isolati militanti sgolarsi invano nei quartieri neri ad ogni sopruso e assassinio di polizia, chi ha visto ogni volta la fiammata di indignazione spegnersi nell’indifferenza o nella repressione delle inevitabili rivolte, ciò che sta avvenendo sulle strade d’America è straordinario, come lo è quanto radicalmente stia cambiando il tono di media e politica.

Per chi negli anni ha documentato l’impunità della polizia la supponenza con cui le autorità si sono trincerate dietro alla indiscussa solidarietà con le forze “protettrici” dell’ordine, impedendo indagini e inchieste giudiziarie dei poliziotti, il vero e proprio sollevamento popolare di questi giorni è piuttosto eccezionale. Come se si fosse infine colmata una misura per cui l’epidemia di morti “da polizia” appare infine sulle pagine, non certo progressiste del Wall Street Journal o addirittura del rissoso foglio populista di New York, il Post che dopo il verdetto Grant ha titolato cubitalmente «We Can’t Breathe». E anche una parte consistente di opinione pubblica americana oggi non riesce più a “respirare”, a tollerare una dilagante e palese ingiustizia.

Il paese in questi giorni prende le misure a un nuovo movimento trasversale per i diritti civili che coopta istanze e l’energia di Occupy applicandole all’obbietivo concreto di un’effettiva riforma della polizia. A fronte di questo fenomeno epocale manca per ora un corrispettivo istituzionale.
All’attorney general dimissionario di Obama, Eric Holder, rimangono poche settimane in carica per intervenire con una significativa riforma sui temi di discriminazione giudiziaria e carceraria che lui stesso ha ripetutamente sollevato durante il mandato come primo ministro di giustizia afroamericano d’America.

L’annunciato disegno di legge in merito potrebbe essere reso noto già domani, ma indiscrezioni a riguardo fanno intravedere solo un generico ampliamento delle regole federali contro il profiling, la discriminazione delle minoranze da parte della polizia. Ma queste sono già in gran parte in vigore e non hanno impedito ad oggi le sistemiche uccisioni.

Se è solo questo – o le modifiche all’addestramento dei poliziotti come quelle annunciate dal sindaco di New York – che saprà esprimere il governo, sarà troppo poco alla luce della rabbia e dell’indignazione espresse da un movimento che reclama semplicemente la fine dell’impunità per gli agenti assassini.