La guardia nazionale arriva a Ferguson. Lo ha annunciato, nelle prime ore di lunedì (pare senza nemmeno informare la Casa bianca), il governatore del Missouri Jay Nixon dopo che, a concludere una giornata di manifestazioni pacifiche, verso le nove di domenica sera, erano scoppiati nuovi scontri tra dimostranti e polizia.
Sette o otto arresti, tre feriti, alcuni negozi e fast food presi di mira, molotov contro gli agenti, pallottole di gomma e lacrimogeni contro la folla; le immagini che riempiono i social media offrono squarci di confusione, tafferugli, strade piene di gente, polizia in riot gear, veicoli militari blindati, che il buio e il fumo rendono ancora più drammatiche.

Al coprifuoco tra la mezzanotte e le cinque di mattina, entrato in vigore sabato, si aggiunge un nuovo giro di vite per le ore diurne: è permesso marciare, ma non manifestare «da fermi», ovvero creare piccoli aggregati di folla, come quelli che avevano cominciato a istituirsi vicino al Quik Trip, un benzinaio andato a fuoco la prima notte di disordini e diventato una sorta di polo gravitazionale delle attività di protesta.
Sono passati nove giorni dalla morte di Michael Brown, il diciottenne afroamericano ucciso da un poliziotto bianco nel sobborgo di St. Louis, ma la situazione non accenna a migliorare. Anzi.

Dopo una fragile tregua istituita venerdì quando Nixon (presumibilmente anche su pressione di Obama) aveva tolto Ferguson dalla giurisdizione della polizia locale, mettendola sotto il controllo della Missouri State Highway Patrol (la stradale dello stato), e del suo carismatico capo afroamericano Ronald J. Johnson, in un sovrapporsi, e contraddirsi, continuo di messaggi da parte delle «autorità» (locali, dello stato e federali) le tensioni sono di nuovo accesissime.

A scapito dei richiami alla calma delle chiese nere di Ferguson e di leader afroamericani di portata nazionale come Jesse Jackson e Al Sharpton.

Non contribuiranno a diminuire quelle tensioni i risultati di un’autopsia indipendente (la prima il cui referto sia stato reso pubblico ), effettuata domenica su richiesta dai genitori di Brown, secondo cui il ragazzo sarebbe stato colpito da un minimo di sei pallottole –due alla testa- sparate non a distanza ravvicinata.

L’esame, effettuato dall’ex direttore dell’ufficio di medicina legale di New York Michael M. Baden, sembra infatti suggerire una sequenza dei fatti più vicina a quella descritta da alcuni testimoni oculari della sparatoria – e cioè che Brown, chiaramente disarmato, forse addirittura con la braccia alzate, stesse cercando di scappare o arrendersi- che non a quella fornita dalla polizia, secondo cui l’agente Darren Wilson (dopo aver fermato il ragazzo e un amico perché camminavano in mezzo alla strada e non sul marciapiede) avrebbe agito su provocazione fisica e quindi sostanzialmente per difendersi.

La polizia di Ferguson non ha rilasciato dettagli sull’autopsia, presumibilmente ordinata ed effettuata parecchi giorni fa. Il ministero della giustizia, che ha indetto un’inchiesta federale sulla morte di Michael Brown e ha già spedito un folto contingente di agenti Fbi a Ferguson, ha ordinato a sua volta un esame medico.
Insieme al silenzio, all’arroganza (quando non era addirittura ostilità) della polizia di Ferguson in risposta a chi chiedeva spiegazioni e giustizia per l’uccisione di un ragazzo disarmato avvenuta alla luce del sole, in un quartiere residenziale della suburbia di St. Louis, l’accavallarsi di istituzioni e giurisdizioni diverse, spesso in forte disaccordo una con l’altra, ha rappresentato una delle caratteristiche di questa storia, che avviene sullo sfondo di una comunità a stragrande maggioranza afroamericana, ma governata da una maggioranza quasi assoluta di bianchi, le cui dinamiche di razzismo e ingiustizia sociale, con la morte di Michael Brown, sono improvvisamente arrivate su un palcoscenico molto più ampio, di portata nazionale, e sono quindi ingestibili secondo i sistemi repressivi di sempre.

Non è un caso che più di un commentatore abbia ricordato, parlando dei fatti di Ferguson, proprio Birmingham, la citta’ dell’Alabama che fu uno dei centri nevralgici del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta.
Parlare di movimento, come ha fatto oggi anche Jelani Cobb, sul sito del settimanale New Yorker, forse è prematuro. Ma la tensione, e lo scollamento, tra una situazione locale reazionaria, chiusa su se stessa, e un’opinione pubblica e un paese che stanno chiedendo risposte diverse, ricorda quella di quegli anni.

Da venerdì scorso, Obama non ha più rilasciato dichiarazioni pubbliche sull’argomento; è però rientrato due giorni a Washington, interrompendo le vacanze e lo si immagina molto vicino quello che succede. D’altra parte Eric Holder, il suo ministro della giustizia, ha fatto dei diritti civili (non solo afroamericani) uno dei suoi cavalli di battaglia. Per ore, comunque, la situazione sembra tutt’altro che stabilizzata. Basti ricordare che sabato – solo dopo che il capo della stradale Randall Johnson, un afroamericano nato a Ferguson era diventato –per ordine del governatore- il volto ufficiale delle forze dell’ordine locali, promettendo la demilitarizzazione delle operazioni di polizia, iniziando lui stesso a partecipare alle riunioni dei dimostranti e rilasciando finalmente il nome dell’agente che ha ucciso Michael Brown – la sua neonata autorità è stata beffardamente smentita quando il capo della polizia di Ferguson ha rilasciato il video di sorveglianza che incriminava Brown del furto di una manciata di sigari, poco prima di essere ucciso.

Percepito come un tentativo di diffamare la vittima, il video ha scatenato episodi di protesta violenta e messo in crisi la credibilità di Johnson, che non era stato informato. Come non era stato informato il ministero della giustizia.