Quando gli uomini del procuratore generale della California Xavier Becerras sono andati a controllare, non potevano quasi credere ai loro occhi. Quasi. Il seggio era là davanti a loro, come dicevano le segnalazioni, una cassa di metallo grigio scuro, una banda bianca con scritto “Official ballot box”, urna ufficiale. Ma di ufficiale non c’era proprio niente. Un “seggio” era davanti a una chiesa fondamentalista cristiana. Un altro davanti a un ben fornito negozio di armi. Un altro davanti a una sede del partito repubblicano… Ce n’erano una cinquantina, sparsi in diverse contee. Ed erano tutti finti.

Il fake ballot box è la nuova frontiera del pasticcio elettorale che la destra americana sta organizzando – ormai è evidente – con l’intento di impugnare la sempre più probabile (ma mai certa, mai) sconfitta di Donald Trump. Sfruttando il cervellotico, scalcinato, sottofinanziato e decentrato meccanismo elettorale americano. A Los Angeles, a Fresno, nella contea di Orange, qualcuno ha sparso questi box di raccolta dei voti postali, che sembrano uguali a quelli controllati e gestiti dallo stato, ma non lo sono.

[do action=”citazione”]Quel qualcuno è il Partito repubblicano della California: hanno acquistato 150 scatoloni di metallo, li hanno travestiti da urna elettorale, più somigliante possibile a quella vera, e da domenica hanno cominciato a installarli in giro per lo stato.[/do]

E non smetteranno, ha detto il portavoce dei Rep californiani Hector Barajas, neanche dopo le intimazioni giudiziarie cease-and-desist subito emesse dalle autorità statali. Perché il bello è che è legale. O meglio, fammi causa e forse vinci – ma dopo il voto. Esattamente il mantra giudiziario di tutte le attività elettorali dei repubblicani al tempo di Trump, che siano privati cittadini, articolazioni del partito, tribunali di nomina politica oppure stati governati dal Grand old party.

 

Ballot box repubblicana a Los Angeles (Ap)

 

Si chiama ballot harvesting (harvest è il raccolto), consiste nel fatto che tra l’elettore e lo stato si inserisce una terza parte, che si assume il compito di raccogliere le schede e consegnarle intatte alle strutture ufficiali che devo contare i voti.

Una terza parte? Che sfiora le urne? In Italia – e in ogni paese che non abbia privatizzato anche la democrazia rappresentativa, oltre a sanità, scuola, carceri e altre quisquilie – finirebbe in galera senza passare dal via. Negli Stati uniti è legale in 26 stati. Certo, con delle limitazioni – ad esempio quella di non dare o ricevere denaro per raccogliere le schede. Ma se non si è tanto idioti da farsi fare un bonifico, provare i pagamenti diventa difficile. Quanto alle schede intatte, si fa più o meno a fidarsi – della catena di custodia, o del partito di un presidente che ha invitato i suoi a “votare due volte” (comizio di Trump del 3 settembre: anche istigare al survoto sarebbe felony, ma uno cos’è presidente a fare?). È una pratica che occasionalmente compare nell’elezione di cariche locali come lo sceriffo, quando quartieri disagiati e sovrappopolati di disperati riscoprono il civismo e votano più che in Bulgaria – ecco, là è possibile che sia passato qualcuno con rotoli di hamilton (le banconote da 10 dollari) e capienti fake box. Ma per il presidente degli Stati uniti è una prima assoluta.

Non è una prima, invece, il ratfucking, cioè il puro sabotaggio – ai tempi di Nixon lo chiamavano “intrafottere”. Ma sta conoscendo un rinascimento. Project Veritas è un’organizzazione legale di destra con sede a Mamaronek, New York, finanziata da un trust a cui dona anche Donald Trump, specializzata nell’infiltrarsi in luoghi politicamente sensibili – comitati elettorali, sindacati, centri per l’aborto – per realizzare filmati, montarli in modo malizioso e ambiguo e diffonderli sui social come grandi denunce. Il suo capo, James O’Keefe, è stato sepolto di denunce e di condanne e ha già dovuto pagare grossi risarcimenti, ma non demorde – probabile che non paghi lui.

L’ultima è del 28 settembre: un video che “provava” come in Minnesota la deputata democratica Ilhan Omar stesse comprando voti postali. Il video non prova nulla di tutto ciò, c’è solo un agente provocatore che discute in tempi diversi di elezioni, di politica e anche di soldi. Ma sette minuti dopo che Project Veritas l’ha messo su Twitter, è stato scaricato e rilanciato come proprio da un altro utente, lo stesso utente che dopo altri due minuti ne ha lanciato una copia anche su Facebook, prima ancora che lo facesse Project Veritas.

[do action=”citazione”]Quell’utente era Donald Trump jr. Chi sia il regista e chi il braccio armato, e facile da capire. E di nuovo non è reato, come al solito: fammi causa, eccetera[/do]

Non è reato nemmeno il gerrymandering, favoloso neologismo composto dal cognome di Elbridge Gerry, vicepresidente nel 1813 sotto James Madison (quello che compare sulle – rarissime – banconote da 5.000 dollari) e da salamander, rettile che richiama l’estrema sinuosità dei confini dei collegi elettorali disegnati dall’antico vicepresidente: spostando un quartiere qua e uno là nei collegi rigidamente uninominali dove chi vince prende tutto, mr. Gerry rubò letteralmente un paio di cariche, regalando al mondo un metodo sicuro per imbrogliare alle elezioni. Messo temporaneamente fuorilegge, nel 2019 il gerrymandering è stato ri-dichiarato legale dalla Corte suprema appena imbottita del quinto e decisivo giudice trumpista, che ha dichiarato di non potersi pronunciare giuridicamente in quanto problema squisitamente politico. A fare causa e vincerla, il dentista repubblicano Robert A. Rucho, senatore statale del North Carolina. Una pacchia per i ridisegnatori di collegi di ogni colore – ma quelli blu-repubblicano sembrano più portati.

E da queste elezioni è tornata legale anche la cosiddetta voters task force. Ossia una milizia armata che “interloquisce” con gli elettori in coda per consegnare i voti postali o per votare nei normali seggi – e anche qui solito mantra: fategli causa e vincerete, ma dopo il voto. Nel 1981 in New Jersey il governatore repubblicano Keane vinse di duemila voti (su oltre due milioni) dopo che poliziotti fuori servizio, armati e con una fascia arancione dall’aria ufficiale al braccio, gironzolarono per i seggi dei quartieri neri chiedendo documenti o credenziali elettorali agli elettori in fila. Ne misero in fuga una quantità sufficiente a far vincere il loro uomo, il Comitato nazionale repubblicano fu denunciato e ottenne di chiudere la causa con un decreto giudiziario: non fatelo più per un certo numero di anni.

Nel 2018 il decreto è scaduto. E gli Oath Keepers, milizia nazionale di ultradestra interamente composta di agenti in servizio o a riposo fondata subito dopo l’elezione di Obama, hanno già dichiarato che accoglieranno l’invito di Trump a “vigilare sul voto”. Insomma, è probabile che si rivedano le armi ai seggi – e sarà legale, nella solita solita interpretazione. È talmente probabile che la Georgetown University ha aperto un numero verde per denunciare le squadracce elettorali – è 866-OUR-VOTE.

 

Stewart Rhodes, fondatore degli Oath Keepers

 

Per non parlare degli stati che riducono consapevolmente gli elettori. Appena si è reso conto dei sondaggi pro-Biden, il governatore repubblicano del Texas ha ridotto i ballot box per i voti postali a uno solo per contea. La Harris County texana ha 2,4 milioni di elettori. Un solo centro di raccolta. I ricorsi legali risalgono la catena alimentare della giustizia finché incappano in un giudice repubblicano, e là si fermano. In Texas è successo tre giorni fa. Racconti epici di code lunghe anche 11 ore, con brandine e generi di conforto come in un’emergenza civile, fioccano dal Texas alla Georgia ad altri stati che stanno già votando. Gli elettori in fila lo trovano un commovente segno di civismo. Il resto del mondo trasecola, Twitter ribolle di commenti allucinati, dall’indigente India fanno notare che persino loro sono più bravi a gestire le elezioni, dall’Australia raccontano che loro si scelgono il seggio, in base alla miglior rosticceria nei pressi, per l’obbligatorio “salsicciotto democratico” che si usa consumare dopo aver votato.

Curioso che il voto postale, inventato a fine Ottocento per permettere ai soldati della Guerra Civile di votare, sia il principale nemico di Trump. Nordisti e sudisti si scannavano lontani da casa ma nessuno pensò mai di impedire loro i diritti elettorali. Oggi si urla ai brogli senza alcuna prova, ma allo stesso tempo si lavora a produrli. Accade infatti che buone quantità dei voti postali siano escluse dal conteggio, ed è molto facile aumentare questa quantità. Nel 2016 sono stati scartati l’8,2% di tutti i voti postali, spesso per errori di processo – una firma leggermente diversa, l’arrivo della scheda oltre una certa data (alcuni stati chiedono la spedizione entro il 3 novembre, altri la consegna), un indirizzo cambiato e non ancora registrato… Senza buonafede, questa percentuale è destinata a salire enormemente.

I repubblicani puntano a un esito elettorale come quello che negli Usa si chiama mexican standoff, stallo alla messicana – descrive dei pistoleri che si puntano contemporaneamente. Proprio il vicino, corrotto, deplorevole Messico è il paese che ha il più fertile carniere di trucchi elettorali: ce n’è un vocabolario pieno. La catafixia, baratto tra cose di valore diverso (ti catafixio questa birra per quella sigaretta, o quel voto). Il carrusel, furgone di elettori trasportati a votare a ripetizione. Il raton loco, correzione abusiva dei registri per cui l’elettore viene inutilmente mandato da un seggio all’altro. La uña negra, un frego nero come un’unghiata che serve a far annullare le schede sgradite. E serve sempre un mapache, che significa procione ma indica l’ufficiale elettorale corrotto.

Le elezioni luride sono una specialità messicana, fin dall’incredibile blackout del 1988 che cancellò la vittoria del progressista Cuathemoc Cardenas e regalò la presidenza a Carlos Salinas, e al Messico il North Atlantic free trade agreement (Nafta) e l’Esercito zapatista di liberazione nazionale. Ma questa volta gli Stati uniti non temono confronti.