This Is Fascism, «questo è fascismo»: più chiaro di così non potrebbe essere, il titolo di The New Republic per l’articolo di Adam Weinstein, esperto di politica interna. Ma se qualcuno fingesse di non capire, ecco la foto sotto il titolo: un muro di donne e uomini in uniforme, le mani guantate di bianco che applaudono Trump in piedi davanti a loro, il solito ciuffo malamente ossigenato, la solita espressione di broncio sfuggente. È un pezzo duro e angoscioso, quello di Weinstein, che lascia intravedere per i prossimi mesi uno scenario anche più feroce di quello attuale, perché – scrive – «il paese è entrato nella fase in cui la rana comincia ad accorgersi che l’acqua sta per bollire».

Il giornalista prende le mosse da un discorso che Umberto Eco tenne il 24 aprile 1995 alla Columbia University nel cinquantesimo anniversario della Liberazione e che uscì poi sulla New York Review of Books con il titolo Ur-Fascism (in italiano Il fascismo eterno, La Nave di Teseo, 2018).

Diceva Eco: «Sarebbe così facile se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: ’Voglio riaprire Auschwitz…’. Ahimè, la vita non è così facile». Non ci sono svastiche, non ci sono camicie nere. E tuttavia, scrive Weinstein, quanto accade negli Stati Uniti rivela che gli elementi dell’ur-fascismo elencati da Eco ci sono tutti e che si è avverata la sua profezia: «Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la voce del popolo».

Ma è soprattutto quello che ci aspetta da qui all’autunno a preoccupare Weinstein: «In Ur-Fascism Eco scrive che… ’dato che i nemici vanno sconfitti, ci vuole una battaglia finale, dopo la quale il movimento avrà il controllo del mondo’. Più ci avviciniamo a una possibile sconfitta alle urne di Trump, più importante e definitiva quella battaglia apparirà a lui e ai suoi sostenitori».

Non meno tagliente, privo di qualsiasi vernicetta consolatoria, è I Have No Mouth and I Must Scream, un intervento di Tochi Onyebuchi, scrittore statunitense di origine nigeriana, cui la rivista Tor-Com ha chiesto di commentare l’uccisione di George Floyd e le manifestazioni di protesta che infiammano gli Usa.

Autore di un romanzo recentissimo, Riot Baby, in cui la brutalità della polizia verso i cittadini afroamericani riveste un ruolo centrale, Onyebuchi non vuole essere «lo scrittore nero chiamato a diversificare le immagini della blackness» per l’editoria o per Hollywood: «Donne nere nei programmi spaziali della Nasa, sirene nere, bounty-killers neri legati da rapporti malsani con mutanti neri… Poi la polizia di Louisville, Kentucky, entra in casa di Breonna Taylor, 26 anni, e le spara otto volte prima di dichiararla morta». Come dire che in una società dove la diseguaglianza fra bianchi e neri è la norma, la diversity cinematografica non serve, né serve ripetere mille volte #blacklivesmatter o condividere il video dell’uccisione di George Floyd «nella foga di dimostrare il proprio sdegno e di conseguenza la propria virtù morale».

Onyebuchi ammette di avere gioito vedendo bruciare il commissariato di Minneapolis e va oltre: «Intellettualmente so che conoscere meglio le vite degli altri ci dovrebbe rendere più tolleranti. Ma non posso non temere che più i bianchi sapranno di noi, e più avranno materia per odiarci».

Del resto, «di fronte a una minaccia aggressiva che trasuda disprezzo per la tua umanità e quando non ti può sfruttare, ti vuole punire, terrorizzare, tormentare, anche la speranza a cosa serve?».