Con lo stesso slancio dei suoi primi film Jerzy Skolimowski in 11 minuti ricompone una sorta di manifesto per i tempi nuovi. Le peregrinazioni per la città di Andrzej Leszczyc indeciso se firmare per il servizio militare interpretato da lui stesso poco più che ventenne (Rysopis del ’64), suo film d’esordio che in stile nouvelle vague ci mostrava attraverso rapidi spostamenti diversi aspetti della città e dei suoi abitanti, è qui come moltiplicato, diventa un attraversamento collettivo per la quantità di personaggi e di punti di vista sulla nuova società. Dopo essersi trasferito a Londra (si ricorderà l’appartamento di Moonlighting ristrutturato da operai polacchi tenuto all’oscuro della fine dello stato di guerra), il regista è poi vissuto a Los Angeles, non ha girato film per parecchio tempo, ma ha ricominciato a dipingere con successo e sono suoi due grandi tele che si vedono nel film. Ora che è tornato a vivere a Varsavia getta uno sguardo sulla società polacca tanto cambiata, sulle nuove architetture di vetro e cemento e su uomini e donne che forse non sanno dove stanno andando, come nel resto d’Europa.

Lo sguardo differente della generazione dei giovani degli anni sessanta si è trasformata in una sorta di punto di vista registrato su monitor di controllo, su cellulari che registrano alcune situazioni come a mostrare il nuovo tipo di visione non si sa se oggettiva o soggettiva. Poi in maniera frenetica si mette in moto un congegno visivo che intreccia le vicende dei protagonisti, tutti in un modo o in un altro presi dalla fretta di arrivare da qualche parte. Il girovagare che negli anni Sessanta aveva il significato di cercare degli obiettivi senza trovarli, dare un senso alla vita, è diventato cinquant’anni dopo un girare a vuoto, una frenesia che non porterà da nessuna parte.

Non si deve certo raccontare la trama di un film tutto basato sull’attesa dei fatidici undici minuti che scatteranno per ognuno dopo le diciassette, però qualcuno dei personaggi scruta il cielo dove si intravede qualcosa di strano, ma non gli si fa caso e di tanto in tanto si getta un indizio. Il film corre come il coniglio di Alice maledettamente in ritardo e verso il fatidico: «alle 18 avrò inizio il giudizio universale», ma nel frattempo vediamo un marito estremamente geloso ritardare l’uscita della moglie che ha un appuntamento di lavoro, un adolescente che vuole comunicare con la madre senza riuscirci, un venditore di hot dog servire quattro suore, la punk portare a passeggio il suo cane, l’operaio in pausa che accetta, un po’ annoiato, di vedere il film porno portato dalla sua ragazza prima di tornare al lavoro. Rysopis era costruito in 29 scene, qui abbiamo una architettura più complessa, scientificamente calcolata che incastra percorsi e incontri. Vediamo successivamente che il ragazzino sta cercando si compiere una stupida rapina, un corriere della droga, piuttosto strafatto lui stesso deve correre a consegnare la merce e andare poi a confessarsi prima del suo matrimonio, un uomo gettarsi da un ponte, un impiccato penzolare da uno sgabello, un pazzo gettare un armadio nelle scale, il marito geloso correre all’hotel prima che un regista faccia «un provino» alla moglie che ha sposato solo il giorno prima.

Il segno sarà quella bolla di sapone risucchiata? o l’acqua che invece di scendere risale il muro? l’uccello che entra nell’appartamento portatore di disgrazie? lo specchio che si rompe? Il regista si diverte a costruire il suo rompicapo, lo fa con la spavalderia della sua grande abilità, come quando scrisse per Wajda la sceneggiatura in una sola notte. In fondo un film ha una durata certa dopo di che per tutti i personaggi è la fine, mentre gli spettatori se ne tornano a casa. Si tratta pur sempre solo di pixel. Eppure si tratta di un finale che riguarda i destini dell’uomo, un po’ come un uppercut, anche questo una specialità del «regista boxeur» come veniva chiamato.

Il regista dice – lo dicono sempre tutti – che la sua storia sarebbe potuta essere ambientata ovunque, anche a Berlino o a Roma, non sa che in questo caso avrebbe avuto qualche problema a sincronizzare così alla perfezione arrivi e partenze dei suoi personaggi scanditi al secondo. «Credo che il film sia una risposta ai film d’azione di Hollywood, dice, mettere un po’ di intelligenza in qualcosa che si sta sviluppando sullo schermo con un po’ di violenza. Mi sono divertito a fare questo film anche se il momento più doloroso è stato scrivere la sceneggiatura. Voglio mostrare la realtà, seguire i personaggi in tempo reale, mostrare la verità in 24 fotogrammi al secondo». Quell’aereo che vola così radente ai grattacieli è forse un riferimento all’11 settembre? «Sono molto vaghi i riferimenti all’11 settembre, dice, è un evento troppo grande per un film, certo quegli aerei devono avere qualche connessione con l’evento, a noi serviva perché passavano a 7’05”, era un punto di riferimento». E, passando dalla precisione tecnica al significato più profondo non può fare a meno di sottolineare che il finale ha il preciso scopo di avvertire che «qualcosa può succedere nei prossimi secondi, la vita è un tesoro, quindi usiamola nel modo migliore».