«Questa è la via Appia, la famosissima strada che, come tutte le strade, conduce a Roma» è la lapidaria, prima battuta di Quo vadis, colossal diretto da Marvin LeRoy nel 1951. La pluristratificata Campagna Romana era del resto già cristallizzata come fonte d’ispirazione per scrittori, intellettuali e artisti: Goethe, Byron, Piranesi e molti altri fabbricarono un evocativo caleidoscopio di ricerca erudita, piacere arcadico, ricostruzione immaginifica. Non solo viaggiatori del Grand Tour o cantori romantici: il poeta e pittore statunitense Lawrence Ferlinghetti, scomparso nel 2021, rimase abbagliato da un crepuscolo «lungo la via Appia» simile, nei suoi colori incendiari, ai quadri di William Turner.

Patrimonium Appiae. Depositi emersi – mostra allestita fino al 30 giugno nel Casale di Santa Maria Nova (Villa dei Quintili) a cura di Francesca Romana Paolillo, Mara Pontisso e Stefano Roascio – intende coniugare il fascino di un luogo straordinario con l’attualità della ricerca scientifica sul territorio. Il titolo allude nella prima parte alla locuzione per designare i beni fondiari della Chiesa in questo quadrante di suburbio romano, mentre il tema dei depositi fa riferimento alla sterminata mole di reperti stipati in magazzini sempre più aperti alla fruizione, ormai lontani dall’essere un mero luogo di stoccaggio.

Le trasformazioni di un paesaggio multiforme sono narrate attraverso contesti tratti dalla celeberrima via Appia, indiscussa Regina Viarum, dalla via Ardeatina e dalla via Latina: il Patrimonium nella sua complessità viene così snodato in un’esposizione di materiali eterogenei e perlopiù inediti provenienti da quel tassello territoriale proprio della giurisdizione del Parco archeologico dell’Appia Antica istituito nel 2016.

La visione diacronica ha l’obiettivo di presentare i fitti rapporti tra uomo e ambiente e il carattere degli insediamenti dalla Preistoria al tardo Medioevo, non disdegnando incursioni nella storia più recente: oltre 250 pezzi tra sculture, gioielli, elementi architettonici, mosaici e affreschi sono disposti seguendo le tre direttrici viarie sopra ricordate. Ogni strada è distinta nell’esposizione (pannellistica e allestimento) da un colore diverso, efficace ancoraggio visivo nell’orientamento topografico.

Riemergono in mostra gli agi del vivere in sontuose ville suburbane come quella di Sette Bassi, la cui profondità cronologica è restituita dai manufatti di età romana sino ai bossoli novecenteschi, o imperiali come quella dei Quintili, con pezzi di recente scoperta come il busto del filosofo epicureo Metrodoro di Lampsaco, ricostruito a partire da un puzzle di circa venti frammenti.

Protagonisti anche i mausolei e le tombe comuni (dal mausoleo di Gallieno ai colombari di Vigna Codini), i complessi termali (terme di Capo di Bove), e le basiliche paleocristiane come S. Stefano o quella circiforme voluta da papa Marco nel 336 d.C.: Patrimonium Appiae. Depositi emersi consente di approcciare alla trasformazione dei contesti in un gioco di scatole cinesi coinvolgente tanto per gli addetti ai lavori quanto per i visitatori meno esperti. Le didascalie, tecniche e precise, contribuiscono a dare spessore a un’iniziativa su larga scala che non rinuncia però a presentare temi complessi quali le pratiche funerarie in età romana o l’articolazione delle fasi edilizie nei singoli impianti.

Una prospettiva così sfaccettata ben si inserisce nella sede del Casale di Santa Maria Nova, contenitore d’eccezione per la sedimentata stratigrafia frutto di una storia millenaria: i materiali esposti e la cornice d’allestimento si intersecano in un dialogo serrato e pienamente riuscito. Il ricco catalogo (pp. 632, con 744 illustrazioni a colori) edito da SAP società archeologica consente infine ulteriori approfondimenti grazie ai saggi introduttivi e alle singole schede dei manufatti: operazione – questa del catalogo – poderosa e non scontata, se si considera la pessima e reiterata abitudine, specie nelle ultime mostre archeologiche allestite nella capitale, di inaugurare le esposizioni senza che il catalogo sia stato stampato, distribuito e talvolta neppure concepito. In questo caso il testo è persino scaricabile gratuitamente dal sito web del Parco (www.parcoarcheologicoappiaantica.it), una scelta ‘futuristica’ che invita a pensare le mostre non come esercizi autoreferenziali ma, al contrario, come uno stimolante servizio pubblico.

Patrimonium Appiae. Depositi emersi dimostra in fondo come una mostra di archeologia non abbia necessariamente bisogno di capolavori artistici magniloquenti per essere attrattiva: bulini e grattatoi del Paleolitico Superiore, scampoli di sarcofagi romani con volti finiti o talvolta ancora solo sbozzati, iscrizioni in alfabeto palmireno che ammoniscono a non violare una tomba, sono tutti fili indispensabili per riannodare la trama interpretativa di un paesaggio evocativo e articolato.

Meno convincente invece «Art Crossing – riattivare il genius loci», l’iniziativa collaterale curata da Spazio Taverna (Ludovico Pratesi e Marco Bassan) nel solco del voler svecchiare a tutti i costi l’antichità grazie alla stampella dell’arte contemporanea. Le sei opere realizzate per l’occasione saranno pure non ‘appoggiate’ al contesto archeologico e frutto del dialogo in loco tra artisti e studiosi, ma il risultato non differisce da quegli accostamenti puramente visuali molto inflazionati nelle esposizioni di carattere archeologico. Iniziative del genere celano spesso la difficoltà di spiegare la cultura antica, e le sibilline ‘contaminazioni’ emozionali costituiscono una scorciatoia allettante: in questo caso, invece, l’esposizione è autenticamente à la page per aver soddisfatto una sfida non semplice, ossia la creazione di un percorso espositivo coerente capace di abbracciare materiali e cronologie eterogenee in una narrazione unitaria e accessibile.